Aggiornamento lunedì 26 settembre: il vertice IMF con i ministri finanziari mondiali a Washington nel fine settimana ha concluso poco. Merkel e satelliti hanno chiaramente problemi interni a convincere i propri partiti e il proprio elettorato della necessità di una urgente azione radicale quale quella suggerita dagli americani: utilizzare, in sostanza, i 440 miliardi del fondo EFSF per accrescere il capitale della BCE in modo che questa possa dispiegare un volume di fuoco dell’ordine dei trilioni e tranquillizzare i mercati. Tutti i leader mondiali hanno fatto pressione (un ottimo resoconto qui). Forse i tedeschi dovrebbero dire la verità al loro popolo circa il pasticcio in cui l’Europa ha cacciato se stessa e il mondo.
Bini Smaghi si è detto a favore della proposta americana, il che fa ritenere che Draghi la pensi allo stesso modo, ma un membro tedesco della BCE ha invece dichiarato che essa fermerà gli acquisiti di titoli nei prossimi giorni (Eurointelligence commenta che questo tale non ha specificato su quale pianeta egli viva). Purtroppo il livello è questo (leader a banchieri centrali extra-Europei, si capisce dalle cronache, sono inorriditi). Nazioncine da Vedova allegra, non solo la Germania , possono bloccare tutto - i Parlamenti nazionali devono ancora approvare le inutili misure prese dall’Europa lo scorso luglio – precostituendo quell’”evento” tale da scatenare il panico finanziario. E in questa situazione l’Italia deve tornare in settimana a collocare titoli sul mercato.
Sabato 24 settembre: Pubblichiamo un articolo con Turci (Cara Bonino, è populismo liberale) uscito venerdì su Europa quotidiano in cui critichiamo l'appoggio dato da Emma Bonino alla proposta Ichino et al. di riforma dei contratti di lavoro. Ci è sembrata una buona opportunità per discutere dello spiacevole liberismo dei radicali italiani. Libertari ci va bene, liberali così così, ma liberisti proprio no. Ci ha fatto piacere che Bordin nell'ottima rassegna stampa di Radio radicale l'abbia letto tutto contrapponendolo a un articolo sul Il Fatto di Antonio Padoa-Schioppa (sic) che sosteneva tutto l'opposto. Del "populista liberale" diedi molti anni fa a Della Vedova intendendo i luoghi comuni derivati dall'analisi neoclassica. Nel frattempo nei meetings finanziari di questo fine settimana si è accresciuta la pressione di Obama perchè l’Europa non mandi il mondo a rotoli. Secondo il NYT la pressione ha preso due forme: (a) smentire l’argomento moralistico che la crisi è dovuta alla dissipatezza fiscale dei paesi periferici; ammesso che ciò sia vero (e sappiamo che non è vero e che le banche tedesche hanno direttamente foraggiato i boom immobiliari in quei paesi), le esportazioni tedesche ne hanno comunque beneficiato enormemente: “There’s a growing narrative that this is a morality play, that this is all about fiscal profligacy in Southern Europe,” said Austan Goolsbee, a former top economic adviser to Mr. Obama, speaking on a panel discussion Thursday at the I.M.F. offices. “But if the Germans are saying, ‘We don’t like the spending by Southern Europe ,’ they must also recognize that they’ve been the great beneficiaries.” E infatti gli imprenditori tedeschi chiedono il rafforzamento dell’impegno tedesco. (b) gli americani suggeriscono, l’aveva già fatto Geithner in Polonia la scorsa settimana, che i fondi europei (EFSF) vengano impiegati come leva finanziaria affinché la BCE possa acquistare un multiplo di titoli pubblici della periferia (uno strumento che Tesoro e Fed Usa avevano utilizzato nel 2008). Infine aumenta la pressione per una diminuzione dei tassi BCE, cosa che essa si appresta auspicabilmente a fare, smentendo per la seconda volta se stessa in mezzo alla crisi (già nella tarda primavera 2008 essa aveva aumentato i tassi con la crisi incombente, in ubbidienza ai tedeschi che volevano intimidire la Ig-Metal , per poi tornare frettolosamente indietro nell’autunno; veramente ai tedeschi andrebbe tolta qualsiasi poltrona nella BCE).
Cara Bonino, è populismo liberale
Sergio Cesaratto, Lanfranco Turci
In un articolo su Europa (21-9-11) Emma Bonino difende l’idea di un contratto unico del lavoro che superi ciò che lei definisce la “pericolosa frattura sociale fra garantiti e non garantiti” anche causa dell’indebolimento dell’accumulazione di “capitale umano qualificato, con effetti negativi sulla produttività del lavoro”. Gli argomenti ci appaiono tuttavia poco convincenti e, talvolta, anche poco coerenti.
Se lo sviluppo di imprese a “basso capitale umano” è stato certamente favorito dalle forme di lavoro flessibile, non si capisce perché l’ulteriore estensione della “flessibilità in uscita” (licenziamenti più facili) possa favorire lo sviluppo di imprese più innovative. L’unico argomento presentato è quello che tale flessibilità consentirebbe alle imprese di espellere i lavoratori meno efficienti ,reclutandone di più preparati e solerti (la “scarsa flessibilità in uscita… riduce la possibilità di una riallocazione più efficiente dei lavoratori fra le imprese”). Ma se sono le imprese che già hanno tale opportunità quelle che investono meno in lavoro qualificato? Difficile credere che la scarsa innovatività delle imprese italiane e la loro mancata crescita dimensionale sia dovuta alle attuali norme sui licenziamenti (i dati Istat non appaiono mostrare alcuna anomalia in corrispondenza ai fatidici 15 addetti sopra i quali non si applica lo Statuto dei lavoratori), mentre la loro estensione, sulla base proprio del ragionamento della Bonino, potrebbe portare a un ulteriore degrado qualitativo delle imprese italiane.
Né si vede come la “flexsecurity” potrebbe assicurare se “non la sicurezza del posto del lavoro”, quella “del lavoro”, cioè che perso un posto di lavoro se ne trovi un’altro. Che la flessibilità non generi di per sé occupazione è proprio dimostrato dalla sua diffusione dagli anni ’90: essa ha sì contribuito affinché quel poco di crescita che il paese ha avuto si traducesse in qualche centinaio di migliaia di posti di lavoro a bassa produttività in più, ma non ha certo risolto il gravissimo problema della disoccupazione, sotto-occupazione e inoccupazione che grava da sempre sul paese. Che la “la riduzione dei costi complessivi di licenziamento aumenti la propensione del datore di lavoro ad assumere i lavoratori con contratti a tempo indeterminato” non lo neghiamo, ma questo non ha a che fare con un aumento complessivo dell’occupazione, ma solo con un mutamento delle figure contrattuali prevalenti.
Il fatto è, ed è questo che ci distingue da un punto di vista interpretativo dalla Bonino e dagli studiosi a cui ella si rifà, che l’accrescimento dell’occupazione complessiva dipende fondamentalmente, sulla media del ciclo, dalla crescita della domanda aggregata, che in economie aperte deve necessariamente verificarsi a livello internazionale, pena gravi crisi di bilancia dei pagamenti nei paesi che volessero sostenerla isolatamente. Paesi con contratti di lavoro più rigidi sperimenteranno in genere cadute minori dell’occupazione in fasi di crisi e aumenti minori nelle fasi di espansione, mentre i paesi più flessibili mostreranno oscillazioni più marcate, ma in media i livelli occupazionali non dipendono dalla flessibilità o meno del mercato del lavoro - a meno di voler competere con gli altri paesi con un dumping sociale neomercantilista. Se questo è vero, è allora alle politiche di sostegno della domanda aggregata, necessariamente a livello Europeo e globale a cui ci si deve rivolgere per assicurare la piena occupazione. Traino di tali politiche dovrebbero essere principalmente attuate, nell’attuale situazione europea, dai paesi forti attraverso il sostegno della loro domanda interna , superando il loro neo-mercantilismo. In un contesto in cui la piena occupazione sia l’obiettivo primario della politica economica, di forme di flessibilizzazione del mercato del lavoro si potrebbe pure parlare, se proprio necessario. Tale contesto assicurerebbe infatti sia posti di lavoro che risorse per generosi ammortizzatori sociali, oltre a rafforzare il potere contrattuale dei lavoratori ben oltre quello derivante dalle leggi.
A noi sembra che gli amici radicali dovrebbero mutare il loro paradigma economico di riferimento dai luoghi comuni derivati dalla teoria liberal-neoclassica – meno ai padri e più ai figli, il rigore come presupposto della crescita, ecc. C’è a nostro avviso un “populismo liberale” dietro questi slogan. La teoria economica critica ha infatti da tempo svelato la debolezza analitica dei fondamenti dell’analisi neoclassica, una moderna religione in cui l’esoterismo matematico ha il ruolo del latinorum dei riti ecclesiastici. Perché, compagni radicali, non rifarsi all’analisi, in fondo di stampo liberale, di Maynard Keynes, o a quella conflittuale derivata dal grande economista borghese David Ricardo, essendo il conflitto, se ben gestito, l’humus della democrazia (e non ci si dica che son teorie vecchie; esse sono state modernamente riprese. Peraltro, tolta la crosta, l’analisi economica convenzionale è di fine 1800). Fra quegli slogan il più pericoloso è quello del conflitto generazionale erroneamente applicato come visto sopra al dualismo del mercato del lavoro; ma anche al problema del debito pubblico letto come un carico sulle future generazioni, una sciocchezza su cui non v’è qui spazio per entrare; e delle pensioni, su cui abbiamo già scritto criticando le posizioni radicali (Il Riformista, 17-9-11, vedi qui sul blog). Al fondo anche della questione pensionistica c’è un problema occupazionale: le pensioni incidono molto sul Pil perché in Italia c’è storicamente poca occupazione e dunque la spesa grava su pochi, e in questo contesto i dati suggeriscono come l’aumento progressivo dell’età pensionabile che si è verificato in anni recenti possa aver diminuito le opportunità occupazionali dei giovani. Insomma, amici radicali, l’invito è di mettere la piena occupazione come obiettivo primario delle forze progressiste sulla base di analisi economiche meno conformiste, poi potremo discutere se necessario di flessibilità e innalzamento dell’età pensionistica. E vi sarà anche spazio per stanziare risorse per quella generosa battaglia di civiltà che voi conducete per condizioni più umane di vita carceraria, battaglia che nel contesto di inutili (e non solo iniqui) tagli di bilancio non ha oggi spazio né nel bilancio né nel cuore di milioni di cittadini, giovani e anziani, preoccupati per il proprio futuro. E con la piena occupazione ci saranno anche meno carcerati.
(Europa quotidiano 23 settembre 2011)
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