RECOVERY FUND/ “È un bluff, per ripartire ci serve una nuova Iri”
Oggi il Consiglio europeo dovrebbe affrontare il tema del Recovery Fund, strumento su cui l’Italia sembra contare molto per affrontare la crisi
Siamo arrivati al giorno in cui il Consiglio europeo dovrebbe affrontare il tema del Recovery Fund,
sempre che la Commissione porti effettivamente al tavolo una propria
proposta, dopo che la scorsa settimana Angela Merkel ed Emmanuel Macron
hanno di fatto già presentato una sorta di loro bozza su cui non sono
mancati i dissensi da parte di Olanda, Austria, Svezia e Danimarca. Il
premier Conte punta molto sul Recovery Fund, dato che ha parlato di una
“svolta storica” dal momento che Francia e Germania si sono accordati
per “500 miliardi a fondo perduto”. Sergio Cesaratto, professore di
Economia monetaria europea all’Università di Siena, non sembra
condividere lo stesso entusiasmo del presidente del Consiglio: “Questa
svolta mi sembra del tutto relativa e dagli effetti minuscoli, fatta
salva l’opposizione di Austria e Olanda, dato che Danimarca e Svezia
sono anche fuori dall’Eurozona. Questi Paesi dicono che non vanno dati
soldi a fondo perduto, ma piuttosto erogati dei prestiti. Ma il Recovery
Fund già consiste di risorse da restituire! Di fatto si tratta già di prestiti
Conte ha parlato però di fondo perduto…
La verità è che verrà utilizzato il
bilancio europeo 2021-27 per restituire ai mercati i soldi che verranno
stanziati. L’Italia dovrebbe ricevere di più di quella che è la sua
quota di versamenti nel bilancio Ue, quindi semmai a fondo perduto sarà
solo la differenza tra queste due cifre. Se, come si dice, l’Italia
riceverà 100 miliardi, anche se sono convinto saranno meno, dovrà poi
restituirne come contributo al bilancio Ue circa 70. Dunque a fondo
perduto ben che vada ci saranno circa 30 miliardi.
Oltre al quanto, sarà importante il quando arriveranno queste risorse.
Sì. Probabilmente, considerando che
stiamo parlando del bilancio europeo 2021-27, le risorse non arriveranno
subito e dovranno essere restituite abbastanza presto. I dettagli
dell’accordo che si raggiungerà saranno in questo senso importanti.
C’è anche l’ipotesi che il Recovery Fund non sia da 500, ma da 1.000 miliardi. Questo non sarebbe un bene per l’Italia?
Certo, maggiore è l’entità del fondo,
maggiore è la quota di risorse a fondo perduto che si può sperare di
ottenere. Non credo però che si arriverà a 1.000 miliardi, anzi, c’è il
rischio che si scenda sotto i 500 per l’opposizione dei “Paesi frugali”.
Che potrebbero anche spingere per una ripartizione diversa degli
stanziamenti, così da far diminuire quelli da destinare all’Italia.
Il Recovery Fund fa parte della
strategia di risposta europea alla crisi determinata dal coronavirus.
Come la giudica nel complesso?
Non mi pare che ci troviamo di fronte a una svolta. Ricorrere al cosiddetto Mes sanitario non
esclude del tutto che possano esserci condizionalità, come pure
riconosciuto da economisti insospettabili come Cottarelli. Esiste solo
una garanzia politica di Dombrovskis e Gentiloni sul fatto che non
scatteranno, ma in punta di Trattato non si possono escludere. Prendendo
in ogni caso per buona la garanzia politica, non avremmo 37 miliardi da
spendere come qualcuno vuol far credere: sono risorse da usare per i
costi sanitari legati all’emergenza. E anche se li usassimo per
investimenti nella sanità, si tratta di soldi da restituire in tempi non
lunghi.
Oltre al Mes sanitario ci sono anche gli stanziamenti della Bei, il fondo Sure, l’intervento della Bce…
L’operazione che coinvolge la Banca
europea per gli investimenti mi sembra un mini-piano Juncker. Il punto è
che la disponibilità di fondi di garanzia è condizione necessaria, ma
non sufficiente per attivare gli investimenti delle imprese: per questo
obiettivo è fondamentale la ripartenza dell’economia, della domanda. Il
progetto Sure non è il fondo per la disoccupazione chiesto più volte
negli ultimi anni che poteva rappresentare “l’embrione” di un bilancio
federale europeo. L’unica cosa seria è l’azione della Bce, su cui pende però la spada di Damocle della sentenza della Corte costituzionale tedesca.
In effetti l’intervento della Bce,
superando anche la quota di acquisti di titoli stabilita con la capital
key, sta facendo scendere non poco il nostro spread.
Evidentemente però tale intervento
non è sufficiente, perché il tasso di interesse sul nostro debito resta
alto. La sentenza di Karlsruhe ha ridotto i margini di manovra della
Bce. È vero che non riguardava direttamente il Pepp, il programma di
acquisto di titoli varato dall’Eurotower per far fronte alla crisi da
coronavirus, ma è ovvio che finisce per influire anche su di esso.
Considerando quindi la limitata politica fiscale di Bruxelles e
l’indebolimento della Bce, il quadro non è molto promettente per
l’Italia.
Secondo lei, cos’ha spinto Merkel e
Macron a presentare una loro proposta sul Recovery Fund, che al momento
è l’unica di cui si sta parlando?
Qualcuno dice che proprio per via dei
paletti posti dalla Corte costituzionale tedesca all’azione della Bce,
qualcosa sul piano fiscale andava fatto. Il problema è che non si tratta
di eurobond, né, se non in minima parte, di stanziamenti a fondo
perduto: è un debito che l’Europa fa e che i Paesi membri si
impegneranno a rimborsare ai mercati nei prossimi anni versando di più
nel bilancio europeo oppure dirottando risorse dai fondi di coesione
europei verso la restituzione del Recovery Fund, tagliando dunque altri
fondi che arrivano da Bruxelles ai Paesi membri. Se devo essere sincero,
a parte il “bluff” sul fondo perduto c’è un aspetto importante che mi
spaventa riguardo ai soldi che l’Italia potrebbe ricevere.
Di che cosa si tratta?
L’uso che ne verrà fatto. I partiti
della spesa facile, M5s in testa, si preparano a banchettare su queste
somme distribuendole con poco criterio e dimenticando che vanno
restituite a breve. Se devono essere impiegate male, quasi quasi sarebbe
meglio che queste risorse non arrivassero proprio.
Teme che vengano utilizzate per spesa improduttiva?
La spesa pubblica non è mai realmente
improduttiva. Il punto è che all’Italia servono infrastrutture e una
vera politica industriale. Si studi dove il Paese importa dall’estero e
quali sono i settori esportatori promettenti, e si investa lì. Si
ricostituisca un Iri attraverso gli escamotage che si possono
individuare per aggirare le normative europee, come insegna la Francia.
(Lorenzo Torrisi)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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