mercoledì 20 novembre 2019

Una lunga intervista

Intervista, mi sembra ben riuscita, su letture.org

Prof. Sergio Cesaratto, Lei è autore del libro Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne) edito da Diarkos: in che modo la teoria economica può aiutarci a spiegare la crisi europea e dell’euro, e il declino del nostro Paese?
 
La prima edizione delle Sei lezioni ha avuto un buon successo perché mostra come esistano diverse teorie economiche le quali ci portano a diverse visioni di come funziona il sistema economico e di come possa dunque essere migliorato. Semplificando, le prime tre lezioni del libro confrontano due teorie, quella “classico-keynesiana” che si rifà ai grandi economisti classici (come Smith, Ricardo e Marx) e alla lezione di John Maynard Keynes (1883-1946), il grande economista inglese dello scorso secolo, e quella “marginalista” (o “neoclassica”) che domina il pensiero economico dalla fine del XIX° secolo. Tale dominio è stato in taluni periodi indebolito dalla critica Keynesiana, ma anche da quella del grande economista italiano Piero Sraffa (1898-1983) che ha riscoperto la visione degli economisti classici. La figura di Sraffa è ignota alla maggioranza degli italiani, persino da quelli colti. Eppure è una figura essenziale per il percorso intellettuale di studiosi come Wittgenstein e Antonio Gramsci. Keynes offrì rifugio a Sraffa, personalmente inviso a Mussolini, accogliendolo nel suo circolo più ristretto a Cambridge. Ed a Sraffa dobbiamo l’innesto di una clamorosa controversia che negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo scosse le fondamenta della teoria dominante. Sraffa dimostrò infatti i gravi errori concettuali del marginalismo che lo rendono una teoria analiticamente sbagliata. La controversia è nota come la “controversia fra le due Cambridge”, quella inglese e quella americana (sede del celebre MIT vicino a Boston). Ma protagonisti della Cambridge inglese erano dei giovani italiani, in particolare Pierangelo Garegnani (1930-2011) e Luigi Pasinetti. Garegnani fu l’allievo prediletto di Sraffa ed è stato il mio maestro. A lui devo la chiarezza concettuale delle Sei lezioni che credo sia ciò che ha colpito di più i lettori. “There are two approaches”, “vi sono due impostazioni”, così esordiva nelle sue lezioni, invitandoci a guardare all’economia attraverso le lenti delle grandi teorie economiche. Lo faceva dondolando un poco, e imitando con le mani il movimento della bilancia.

Semplificando molto, la teoria classica aveva al suo centro il concetto di sovrappiù sociale. Questo è definito come ciò che rimane del prodotto sociale una volta tolte le sussistenze per i lavoratori. Questo semplice concetto ci dà la chiave per ricostruire il funzionamento delle diverse “formazioni economiche” pre-capitalistiche, dall’economia neolitica alle civiltà antiche e successivamente al feudalesimo. A seconda delle diverse condizioni geografiche e storico-istituzionali diverse sono infatti state le modalità con cui le classi dominanti si sono appropriate de sovrappiù sociale. Non è un caso che tale concetto sia ampiamente utilizzato negli studi archeologici delle civiltà antiche e nell’antropologia. Per fare due nomi noti, Vere Gordon Childe (1892-1957), il più grande archeologo dello scorso secolo, usava il concetto di sovrappiù. D’accordo, era marxista, ma lo impiega anche Jared Diamond in Armi, acciaio e malattie (Einaudi), che molti lettori ben conosceranno, e Diamond non è marxista.
La teoria economica marginalista ha invece al suo centro l’idea che il laissez faire conduca a una distribuzione del reddito fra i “fattori produttivi” (come lavoro, capitale e terra) in cui ciascuno ottiene una fetta di torta commisurata all’apporto di quel fattore alla produzione sociale. A ciascuno il suo, insomma. Il punto è che, come Sraffa dimostra, nella dimostrazione analitica di tali conclusioni essa compie gravi errori che ne inficiano i risultati. In aggiunta, Keynes dimostra come non sia vero come preteso da questa teoria che tutto ciò che si produce è venduto, ma che il capitalismo soffre di carenza di domanda aggregata. Tale carenza è da porsi in relazione proprio con la diseguale distribuzione del reddito che caratterizza anche il capitalismo. Chi ha i denti non ha il pane… come si usa dire. E questo ci porta al suo quesito sulla crisi europea, a cui sono dedicati le due lezioni finali del libro.
(La lezione intermedia, la quarta, è dedicata alla moneta e al vincolo che la bilancia dei pagamenti pone alle politiche espansive nazionali).
Naturalmente la crisi dell’eurozona ha origini molto complesse, così come il declino economico italiano.

Quali sono dunque le cause della crisi europea?
In generale l’analisi economica di orientamento keynesiano aveva scoraggiato un’unione monetaria europea. Se ne era parlato sin dagli anni cinquanta, e gli economisti scoraggiarono tale idea. La flessibilità del tasso di cambio è infatti un buon lubrificante nelle relazioni economiche fra Paesi con caratteristiche economico-istituzionali diverse, come accade fra i Paesi europei. La lezione della drammatica uscita dell’Italia (e del Regno Unito) dal sistema monetario europeo nel 1992 doveva anche essere di monito (lo SME fu un sistema di cambi fissi fra le monete europee fra il 1978 e il 1999, una sorta di padre dell’euro). Lo SME creò squilibri all’economia italiana, ma potemmo uscire e aggiustare i conto con l’estero. Quelli pubblici no, in seguito sia alla sciagurata indipendenza della Banca d’Italia dal Tesoro inaugurata nel 1981, per cui la Banca non fu più tenuta al suo dovere di sostenere i titoli di Stato, che all’irresponsabile progressivo smantellamento dei controlli sui movimenti di capitale. Negli anni dell’euro pre-crisi lo sforzo di rispettare i parametri fiscali europei ci è costata la stagnazione dell’economia. La crisi europea scoppiata col caso greco nel 2010 non ha a che fare con l’Italia, comunque. Ci torniamo più avanti.
Ma allora perché l’Italia aderì alla moneta unica?
Sotto l’influenza di personaggi come Beniamino Andreatta, alla fine degli anni settanta emerse una classe tecno-politica di centro-sinistra che voleva porre fine al disordine economico-sociale del decennio trascorso. Frutto delle contraddizioni sociali che la classe politica italiana non seppe risolvere negli anni successivi al miracolo economico, negli anni settanta la politica economica italiana si barcamenò nel cercare di accontentare un po’ tutti, padroni, operai e ceti parassitari anche attraverso la spesa pubblica. L’inflazione era alta, anche per gli shock petroliferi, ma la Banca d’Italia finanziava il governo sicché il debito pubblico non cresceva in rapporto al Pil, e comunque i risparmiatori erano costretti a investire in titoli di Stato in seguito ai controlli sui movimenti di capitale con l’estero (e che male c’è?). La svalutazione assicurava la competitività esterna. Fra “stop and go” il Paese difendeva crescita e occupazione. I soldi per emergenze come l’Ilva o Venezia sott’acqua non mancavano. I Soloni del centro-sinistra volevano però riportare le cose in ordine. Con un vero e proprio golpe bianco (senza cioè avviare un dibattito in Parlamento e nel Paese), nel 1981 Andreatta (Tesoro) e Ciampi (Banca d’Italia) interruppero il finanziamento monetario della banca centrale al Tesoro. Il “divorzio” fu preceduto dall’adesione allo SME, una gabbia al conflitto sociale, a cui infatti il PCI si oppose (con un discorso di Giorgio Napolitano!). Per le ragioni che spiego nella quinta lezione – sviluppate anche in un saggio con Gennaro Zezza – queste scelte determinarono l’esplosione del debito pubblico, disavanzi e indebitamento con l’estero. Nel 1992 uscimmo dallo SME per far respirare l‘economia italiana, come scrisse un’influente economista dell’Università di Bologna, Paolo Onofri, esponente di circoli intellettuali che avevano in Prodi il nome di punta. Il gioco fu però ripetuto con l’euro, ciò che risultò nell’inizio del declino. Simbolo di questo declino è la stagnazione della produttività (del prodotto per lavoratore). Questa comincia dal 1995 ed è dovuta alla compressione della domanda interna dovuta alla costante austerità fiscale che il Paese si autoinfligge da principio degli anni novanta con in mente la moneta unica. Se la domanda interna langue, le imprese non investono e non c’è progresso tecnico.

Quali debolezze caratterizzano la costruzione europea?
Un’unione monetaria implica un’unione politica, come negli Stati Uniti. I membri più ricchi dell’unione si rendono disponibili a sostenere i membri più deboli. Questo implica un ampio bilancio federale che redistribuisce risorse e agisce, sostenuto dalla banca centrale, per contrastare le fasi negative del ciclo economico. In Europa si è fatto l‘azzardo di anteporre l’unificazione monetaria a quella politica col risultato, catastrofico, di aver allontanato quello che doveva rimanere un obiettivo graduale e di lunghissimo periodo, ovvero l’unificazione politica. Fra i popoli europei non c’è solidarietà politica. Non c’è all’interno dei singoli Paesi – dei veneti verso i calabresi, dei catalani verso gli andalusi, dei fiamminghi verso i valloni, fra Germani ovest e est e si potrebbe continuare. Di che parliamo dunque. Chi blatera di Europa federale, solidarietà ecc. è un illus*, o in cattiva fede. Il principe degli economisti liberisti, Hayek (1899-1992), lo scrisse chiaramente nel 1939. Un’Europa federale redistributiva non è possibile, l’unica Europa possibile è quella fondata sul laissez-faire. La più coerente europeista è infatti la Bonino, che è una liberista e alla quale quest’Europa va benissimo – anzi ne vorrebbe di più in quanto veicolo di liberismo.

Che dire delle politiche monetarie e fiscali europee?
Queste politiche si rifanno alla parte più retriva della teoria dominante. Come spiegato nella seconda lezione, secondo questa teoria la politica monetaria è inefficace per sostenere l’occupazione ma produce solo inflazione. Allora la banca centrale deve essere indipendente dai politici e col solo obiettivo della stabilità dei prezzi. Ecco la BCE (che naturalmente sotto Draghi ha cercato anche di agire in difesa della crescita, ma con l’opposizione feroce della Germania). In questa visione la politica fiscale è inutile, anzi controproducente in quanto sottrae risorse al settore privato. Ecco i paletti di Maastricht su debito e deficit pubblici, e tutta la congerie di misure di rigidità e controlli ossessivi sulle finanze pubbliche nazionali. In questo quadro, il mondo di Carlo Cottarelli verrebbe di chiamarlo, l’obiettivo dell’occupazione è lasciato alle cosiddette riforme strutturali, leggi alla liberalizzazione selvaggia del mercato del lavoro. In questo senso l’occupazione è per l’UE un problema nazionale, di riforme nazionali.
Tutto questo è profondamente anti-keynesiano. Per i keynesiani più genuini il problema dell’occupazione è internazionale, richiede cioè politiche fiscali e monetarie espansive concertate a livello regionale e globale. Dall’esperienza di Mitterrand nel 1981-82 in Francia sappiamo che politiche keynesiane in un Paese solo sono impossibili a causa del menzionato vincolo della bilancia dei pagamenti. Se ne parla nella quarta lezione.

Quale ruolo ha il mercantilismo tedesco nelle politiche europee?
La Germania è il Paese chiave. Purtroppo è un Paese strutturalmente incapace di esprimere una leadership positiva. Riesce ad essere sempre devastante. Ha impostato tutta la sua politica economica del dopoguerra su quello che un importante storico economico tedesco ha definito “mercantilismo monetario”. In questo modello le esportazioni fungono da traino dell’economia. Ciò implica tecnologia, ma anche acquiescenza sindacale al modello sì da avere prezzi competitivi. Il modello si perfezioni in contesti di tassi fissi, in cui i Paese più “keynesiani” come Francia, Regno Unito o Stati Uniti, non possono reagire alla politica tedesca svalutando la propria moneta. Così la Germania vive dell’espansione della domanda interna degli altri Paesi e del loro minore rigore salariale. È un modello destabilizzante dell’economia europea e mondiale. Invece di fare da locomotiva, la Germania fa da vagone. È un comportamento irresponsabile. Lo si è visto nell’Europa dell’euro. Come si spiega nella quinta lezione, la moneta unica favorì l’indebitamento di alcuni Paesi della periferia europea come Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo verso la Germania (e la Francia, ma questa fingeva da mera intermediaria per le banche tedesche). La Germania praticava quella che si chiama “vendor finance”: fornire credito ad altri Paesi affinché comprino prodotti tedeschi. Ma questo porta all’indebitamento di questi Paesi e a una crisi finanziaria, come s’è visto. E anche Stati Uniti e Cina sono forse stanchi di questa politica tedesca di vendere e non comprare.

Un'”altra Europa” è possibile?
Qual è la domanda di riserva? Certo che è possibile in via teorica. Si tratta di completare l’unione monetaria nella direzione di Stati Uniti d’Europa. Quindi un forte bilancio europeo che miri a perequare le condizioni di vita nei diversi Paesi (quello attuale, meno dell’1% del Pil europeo, è ridicolo); una BCE che ponga l’occupazione come suo obiettivo con la medesima dignità della stabilità dei prezzi (come per la Federal Reserve americana); un’unione bancaria completa per cui le crisi bancarie locali sono affrontate con risorse federali; una politica estera comune… Sì, siamo al libro dei sogni. Solo un illuso, di cui il mondo è purtroppo pieno, può pensare che esistano le condizioni politiche per questa evoluzione. Di molto meno ci accontenteremmo: un BCE che continui ad essere accomodante e sostenga una politica fiscale espansiva, soprattutto da parte di chi non ha problemi di debito pubblico, come per anni ha chiesto Draghi. E si noti che non è per virtù che alcuni Paesi hanno i conti in ordine: i problemi degli altri si sono tradotti in domanda per i titoli di Stato tedeschi od olandesi, che in più si sono avvalsi degli acquisti da parte della BCE. È facile così tenere i propri conti in ordine!
Voglio però concludere con un accenno ai danni che l’Europa di Maastricht ha apportato alla democrazia. Quest’ultima presuppone che le scelte di politica economica – inclusa la politica monetaria – siano oggetto delle scelte degli elettorati nazionali. Il rischio è che sennò la democrazia si riduca al dibattito sui diritti civili, sacrosanto, ma sufficiente solo per i sostenitori del laissez faire e non per la tradizione riformista socialista. La delega delle scelte di politica economica a strutture tecnocratiche sovranazionali, dominate peraltro dalle potenze dominanti, è la mortificazione della democrazia quale si esprime nei parlamenti nazionali. Purtroppo le élite cosmopolite della democrazia e del suffragio universale hanno ormai disprezzo.

Riferimenti
Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), 2da edizione, Diarkos, Reggio Emilia, 2019.
Sergio Cesaratto, e Gennaro Zezza, Farsi male da soli. Disciplina esterna, domanda aggregata e il declino economico italiano, L’industria, vol. 2, 2019, pp. 279-318, DOI: 10.1430/94135

Sergio Cesaratto insegna Politica monetaria e fiscale europea ed Economia internazionale presso l’Università di Siena. È uno dei più noti economisti “eterodossi” internazionali. Si è occupato fra l’altro di crescita economica, pensioni, innovazione e, ultimamente, della relazione fra teoria del sovrappiù, Polanyi e archeologia e antropologia economica. I suoi contributi sono stati pubblicati dalle principali riviste scientifiche eterodosse internazionali. È uno dei più noti partecipanti al dibattito pubblico italiano ed europeo sul tema della crisi dell’eurozona.

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