domenica 1 luglio 2018

Grecia: cravatte o cappi?


Col titolo La cravatta di Tsipras. Quale morale dalla crisi greca? MicroMega on line ha pubblicato questo pezzo. La soddisfazione di vedersi pubblicati non è nell'articolo, ma nel veder passare il titolo proposto. E, come ho detto su FB, spesso scrivo solo per farmi un'idea veritiera delle cose, magari approssimativa, o almeno ci provo.

 

La cravatta di Tsipras. Quale morale dalla crisi greca?


Ma che piccola storia ignobile che mi tocca raccontare…
“Atene respira” recitava il titolo de il manifesto del 23 giugno, l’agitprop di Tsipras in Italia. La Grecia “comincia a tornare ad essere padrona del proprio destino” scrive Roberto Musacchio su FB (22/6) che proclama che “serve una battaglia di liberazione dell'Europa”, in linea con Alfonso Gianni, sempre su il manifesto, secondo  cui la “questione del debito non è solo greca o italiana, ma riguarda gli equilibri e il futuro dell’Europa e a tale livello va complessivamente affrontata”. Insomma, la Grecia ce l’ha fatta, ora cambiamo l’Europa. Purtroppo le cose non stanno così e tali enunciazioni sembrano le cronache di quel giornalista di Saddam che proclamava la vittoria coi carri americani dentro Bagdad.

Atto primo - Dalla tigre greca alla crisi e al primo “salvataggio”
Vale la pena ricapitolare un po’ l’accaduto di questi dieci o vent’anni. Com’è tradizionale per i paesi in ritardo, negli anni dell’euro pre-crisi la piccola Grecia ha fondato la sua crescita sull’indebitamento estero. Come abbiamo più volte spiegato (Cesaratto 2018), tassi di cambio fissi favoriscono i prestiti centro-periferia. Così fu nel gold standard, così è stato nell’euro. Tale modello andava benissimo alla mercantilista Germania (e alla Francia) che poteva così disporre di un piccolo ma prezioso mercato per le proprie esportazioni (e infatti la Merkel andava a braccetto con Karamanlis, il primo  ministro greco di centro-destra nel 2004-9). A differenza della Spagna, dove era una bolla edilizia a guidare la crescita, in Grecia era soprattutto la spesa pubblica ad assolvere a questo compito. La crisi da indebitamento scoppia nel 2009-10, quando il socialista Papandreu rivela il conti falsificati dalla precedente amministrazione in un contesto minato dalla grande recessione. I capitali stranieri cominciano a fuggire dai titoli di Stato greci, e il paese è sull’orlo del default (in pratica impossibilitato a collocare sul mercato a tassi accettabili nuovi titoli in sostituzione di quelli in scadenza). Anche se non esattamente così, la lettrice identifichi debito pubblico e debito estero, vale a dire supponga che tutto il debito pubblico greco fosse detenuto da stranieri (del resto, lo Stato funge da garante di ultima istanza anche sul debito estero delle banche). Il soccorso allo Stato greco attraverso fondi prestati bilateralmente dagli Stati dell’eurozona e dal FMI fu chiaramente un salvataggio della banche francesi e tedesche. Queste ultime erano già piene di titoli tossici americani e, così ci si giustificò, non avrebbero retto all’urto di ulteriori perdite sul fronte greco trascinando l’Europa in una (seconda) grave crisi finanziaria. Così il FMI, nella parte a lui inusuale del buono, ingoiò il primo pacchetto di aiuti (maggio 2010, dell’ordine di 110 miliardi di euro) chiaramente destinato a un paese insolvente (vale a dire si stava gettando moneta buona dietro quella cattiva). Alla Grecia si inflisse un primo pacchetto di misure di austerità e di “riforme strutturali” del tutto inutile a riportare il paese su un qualche sentiero di sostenibilità. Solo una robusta ristrutturazione del debito estero – vale a dire un taglio di una parte significativa e dilazione del rimanente a tassi agevolati – avrebbe potuto operare in questa direzione, pur mancando la componente essenziale della svalutazione della moneta che tradizionalmente completa i pacchetti di salvataggio marca FMI. La svalutazione aiuta infatti la ripresa della competitività estera, alleviando il peso dell’austerità (cioè del taglio della domanda interna) e agevolando il riaggiustamento delle partire correnti - un paese indebitato deve realizzare un surplus esterno se vuole lentamente restituire il debito estero. Senza svalutazione, invece, tale riaggiustamento ricade tutto sulla contrazione della domanda interna, sì da ridurre le importazioni, e sul taglio dei salari nominali per riacquistare competitività. Questa è definita “svalutazione interna”. Al contrario, tuttavia, di ciò che pensano gli economisti piddini (e i loro accoliti della sinistra radicale e antagonista), la svalutazione interna è più dolorosa di quella esterna perché richiede massicce dosi di disoccupazione e riforme del mercato del lavoro sì da far accettare ai lavoratori il taglio dei salari. Inoltre la deflazione comporta il fallimento dei debitori (imprese e famiglie che vedono diminuire le entrate a fronte dei mutui da pagare) e di conseguenza delle banche (come ben sappiamo in Italia).
Atti secondo e terzo – i pacchetti 2012 e 2015
 A fronte dell’evidente impossibilità della Grecia di far fronte alla restituzione del debito estero e del suo servizio (pagamento degli interessi), nel marzo 2012 viene approvato un secondo pacchetto di aiuti (ordine 200 miliardi) accompagnato da un taglio del debito di circa 100 miliardi e da un “reprofiling” dei prestiti europei, la cui restituzione viene differita di dieci anni (al 2023) a tassi più accettabili. Il taglio colpisce però soprattutto i titoli detenuti dalle banche greche e dai fondi pensionistici (comunque le banche tedesche e francesi erano state messe al sicuro nel 2010). Sicché parte dei nuovi prestiti (circa 50 miliardi) viene destinata a ricapitalizzare le banche greche che sarebbero altrimenti fallite. Insomma il taglio del debito fu in parte fittizio – a fronte del taglio di 50 miliardi di debito pubblico, lo Stato greco si trovò con 50 miliardi di debito estero di più – mentre il resto del taglio colpì le pensioni (quelle private). La solita lista di misure di austerità (surplus di bilancio primari di mole impossibile) e di “riforme” (tagli di diritti sociali, pensioni pubbliche in primis) accompagnò il pacchetto.
Nel luglio 2015, dopo le drammatiche vicende che conosciamo, la Troika accordò alla Grecia altri 80 miliardi, sì da consentirle la restituzione dei prestiti FMI in scadenza, allungando la lista di tagli e “riforme”.
Arriviamo così al giugno 2018, scadenza del terzo pacchetto. Il 23 giugno viene stipulato un nuovo accordo che prevede una nuova dilazione decennale del debito estero al 2033 (la precedente scadeva nel 2023) senza alleviare i tassi praticati. Gli inglesi lo chiamano “extend and pretend”: estendi i termini della restituzione e fai finta che verrà pagato; oppure “kick- the-can-down- the-road”, dai un calcio alla lattina giù lungo strada, ovvero differisci il problema. Che v’è dunque da festeggiare se una vera ristrutturazione del debito non c’è stata? Certo, vi sono gli “sweeteners”, come la restituzione da lungo attesa dei 4,8 miliardi di interessi che la BCE ha conseguito sui titoli greci acquistati nel 2010 -11, che è però subordinata alla realizzazione di significativi surplus di bilancio primari – sicché l’impronta macreconomica resterà di forte austerità fiscale – ed di altre “riforme” (incluso un ulteriore tagli delle pensioni dell’1%). Il mantenimento di surplus fiscali del 3,5% del Pil sino al 2022 e del 2,2% sino al 2060, cioè 42 anni di austerità fiscale, è giudicato peraltro “mission impossible” dal FMI. Per il dispiacere di Musacchio e Gianni la Troika (ops! le istituzioni) non se ne andranno affatto dalla Grecia che continuerà ad essere un Paese commissariato.
La verità è che la Grecia è impossibilitata a pagare il debito estero, quindi è persino sbagliato dire che il periodo di grazia le dia respiro. In verità proprio perché non può pagare, né ora né mai, avrà un cappio al collo per decadi affinché viva delle sole proprie risorse. Poi, certo, chissà come sarà il mondo nel 2033 ed oltre. Il debito tedesco fu definitivamente liquidato, come da accordi stipulati nel 1953, dopo l’unificazione, quando era ormai noccioline per la Germania (Cesaratto 2018, p. 65): ma possiamo aspettarci altrettanto per la povera Grecia? L’attesa è che il debito greco serva a guadagnar tempo all’Europa e diventi per essa “peanuts”, e venga perciò in parte condonato senza proteste dell’elettorato. Ma questo non potrà accadere prima del 2033, condannando il paese ad almeno 15 anni di austerità fiscale.
La morale
Che morale trare da questa vicenda.           Alla luce di un inquadramento storico di lungo periodo, la recente vicenda greca è quella di un piccolo paese che per la quarta volta (almeno) in due secoli di indipendenza è incorsa in un default sul debito estero, con conseguente deflazione interna e perdita di sovranità (Reinhart e Trebesch 2015). Una via nazionale allo sviluppo, senza indebitamento esterno, è certamente possibile ma richiede una serie di fattori non presenti in Grecia: istituzioni giuste (come una classe politica adeguata e orientata allo sviluppo, e sufficienti livelli di istruzione); risorse naturali (che in Grecia non vanno probabilmente molto oltre alle bellezze naturali); aiuti esterni. Alcuni di questi fattori sono stati per esempio presenti in alcuni paesi asiatici – dotati di un “developmental State” (una borghesia nazionale che guida lo sviluppo attraverso l’apparato pubblico), e oggetto di un particolare sostegno esterno americano che ha anche aperto il mercato alle loro esportazioni. Per contro la Grecia ha svolto nell’euro funzione di complemento al mercantilismo tedesco che, attraverso forme di “vendor finance”, ne finanziava la domanda per le proprie esportazioni. Questa storia comporta per una sinistra pensante riflettere sui fattori dello sviluppo economico, di domanda quanto di offerta. Per l’Europa si tratta di pensare a politiche regionali di sviluppo più incisive, una volta assunta la responsabilità, che non è solo greca, di quanto accaduto. Già ma quale Europa? Cos’è l’Europa se non un consesso di nazioni rivali e litigiose. Ma questo è il mondo, ci piaccia o no. E se il mondo è brutto, è bene cercare di governarlo prendendone atto, e ponendo la cura del proprio interesse come premessa al compromesso. La sinistra vive, tuttavia, in un mondo parallelo in cui ci si raccontano le favole di Esopo, ed è per questo destinata alla scomparsa in un mondo di adulti.

Riferimenti
Cesaratto, S. (2018) Chi non rispetta le regole? Italia-Germania, le doppie morali dell’euro, Imprimatur, Reggio Emilia.
Reinhart, C. M. and Trebesch, C. (2015), ‘The Pitfalls of External Dependence: Greece, 1829–2015’, NBER Working Paper no. 21664.
Roos, J. (2018) Why the debt deal with the EU is bad for Greece, https://www.aljazeera.com/indepth/opinion/debt-deal-eu-bad-greece-180624082950318.html

1 commento:

  1. La domanda, che ci portiamo dietro dal 2015, è: perché Tsipras ha assecondato tutto questo?

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