Altruismo, incentivi e informazione: due o tre cose che
so sull’esperienza socialista
Sergio
Cesaratto
<What does the economist economize? "'Tis
love, 'tis love," said the Duchess, "that makes the world go
round." "Somebody said," whispered Alice, "that it's done
by everybody minding their own business." "Ah well," replied the
Duchess, "it means much the same thing."
... if we economists mind our own business, and do that business well, we can,
I believe, contribute mightily to the economizing, that is to the full but
thrifty utilization, of that scarce resource Love – which we know, just as well as anybody else, to be the most precious
thing in the world> (D.H.Robertson 1954, p. 154, citazione di Alice da Lewis
Carroll)*
Sommerso dalla didattica
e dal chiudere un po’ di lavori, non ho potuto seguire con grande attenzione
quanto pubblicato in queste settimane in occasione del centenario della
rivoluzione sovietica. Del resto quel poco che ho letto (in italiano o in
inglese) non mi è stato di grande ispirazione. Manca una chiave. Questa chiave
io non ce l’ho. So due o tre cose che, come al solito, ho imparato dai maestri.
Un solo lavoro che ho letto recentemente (Foley 2017) mi è stato di qualche stimolo.
Ma anch’esso è per gran parte una intelligente rivisitazione del più importate
dibattito economico sul socialismo, quello che a partire dal famoso articolo
del 1908 del noto marginalista italiano Enrico Barone (1859-1924) discusse la
possibilità di una economia socialista, quanto questa si potesse effettivamente
discostare da quella capitalistica e l’efficienza relativa dei due sistemi. Di
questo dibattito sapemmo da studentelli di economia – quando eravamo ancora
allattati con la Vodka – dal benemerito napoleoncino (Napoleoni 1971).
Qualcos’altro ho imparato dai maestri circa gli effetti perversi che la piena
occupazione ha determinato sulla disciplina e la produttività, sia di qua che
di là della cortina di ferro. Poi non molto altro, ma non ho letto tanto
sull’argomento, per cui è con un po’ di presuntuosità che scrivo. Del resto è
un argomento mostruosamente vasto e il meglio è nemico del bene.
1. Il mercato è buono. Ai “compagni” (e “compagne”) non è spesso
chiara la problematica del coordinamento delle attività economiche in società
complesse. Come spesso accade in tutto ciò che odora di sinistra “le leggi
economiche possono essere sospese o ignorate”, come la mette D.Mario Nuti
(2017), uno dei maggiori studiosi europei dei sistemi socialisti. A sinistra
domina l’umanitarismo, l’utopia, il tutto è possibile purché dal cuore umano si
lascino uscire le energie migliori. Il cuore umano è purtroppo assai poco
studiato - avete mai sentito nominare un progetto di ricerca su “Siamo buoni o
cattivi? e come possiamo migliorarci?”. Sarebbe troppo politicamente
fastidioso. Nell’incertezza è tuttavia bene essere cauti sul cuore umano. Anzi,
proprio da questa constatazione, muove la difesa che i liberali fanno del
sistema di mercato: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o
del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno
cura del proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo e con loro
non parliamo mai delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi”,
ci insegna Smith (1776, p. 18). Da punto di vista dei suoi sostenitori il
sistema di mercato ha parecchi vantaggi.
1.2. Il mercato dimostra
che lo stato di natura non è necessariamente quell’homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’altro uomo) di
hobbesiana memoria, e non è dunque
necessario l’intervento di uno Stato autoritario che imponga pace ed ordine; lo
stato di natura può rivelarsi, attraverso lo scambio, un mezzo di vantaggio
reciproco e di pacifica convivenza non solo fra individui ma persino fra Stati.[1] In
questo senso, evitando che sia lo Stato a regolare la convivenza umana, se non
addirittura a dettarne le scelte con lo Stato etico, il mercato è a fondamento
delle libertà e delle scelte individuali. La società civile può dunque vivere
di vita propria. Allo Stato, anzi, è assegnato il compito di tutelare il
mercato quale fondamento di libertà.
(b) Ma v’è di più.
Secondo i suoi sostenitori, il mercato trasforma pulsioni negative come
l’egoismo e il perseguimento dei propri vantaggi in un beneficio collettivo, e
per questo molti intellettuali salutarono con favore la nuova forma di mercato
(Hirschman 1979).
(c) Il mercato non solo
veicola le energie negative a scopi collettivi, ma, come brillantemente
argomentò l’economista di Cambridge Dennis Holme Robertson in un famoso saggio
del 1956 dal titolo significativo di “Che cosa economizza l’economista?”, il
mercato economizza in bontà, dove per bontà si intende moralità e spirito
civico (Hirschman 1985, p. 18).[2]
Piero Sraffa, J.M.Keynes
e D.H.Robertson in una famosa foto degli anni trenta
Risolto il problema
economico senza dispendio delle energie più nobili, queste si possono dedicare
ad opere più elevate (inclusa la generosità verso i più sfortunati). Hirschman
(ibid) criticò sia l’idea che “amore, benevolenza e spirito civico” siano
necessariamente risorse scarse, che quella che siano risorse infinite,
giudicando che il capitalismo fosse (troppo) basato sull’idea dell’altruismo
come bene scarso, e il socialismo su quella dell’illimitato altruismo umano. Ma
basterebbe una pur cospicua disponibilità umana a far funzionare economie
complesse?
Vi faccio l’esempio di un
benemerito centro sociale che mi trovo a frequentare, orientato a sinistra e
tutto basato sul volontariato. Le cene che precedono il cineforum sono a prezzo
molto popolare. Tuttavia la predisposizione dei pasti e le pulizie spesso
ricadono su pochi. A un certo punto è comparso l’avvertimento “la cena prima
del cineforum non è assicurata” (vale a dire, o c’è condivisione della
preparazione o la cena non è assicurata). Risultato è che “non è dalla
benevolenza del centro sociale che ci aspettiamo il nostro pranzo”. L’altro
problema è quello che anche laddove ci sia la buona intenzione di partecipare
(che in fondo non manca), spesso chi si candida non sa dove mettere le mani,
c’è un problema informativo, e trasmettere l’informazione costa (chi fa da
sé...).[3]
2. Mercato e gerarchie. I vantaggi del mercato non si fermano infatti
al “risparmio di altruismo”. Sistemi
complessi in cui vige una raffinata divisione del lavoro richiedono
coordinamento. Questo è svolto da un lato dalla mano invisibile smithiana e
dall’altro dalle “gerarchie” (Coase 1937). L’impresa è una forma “gerarchica”
di coordinare le informazioni, la mano invisibile agisce attraverso il sistema
dei prezzi. Nel capitalismo il mercato seleziona la suddivisione migliore fra
le due tecniche di coordinamento. Il socialismo ha optato, più frequentemente, per
l’organizzazione gerarchica nella forma di una economia di comando
(pianificata), ma in verità ambedue le forme sono imbarazzanti per i
socialisti. La gerarchia perché oltre a essersi rivelata inefficiente in
pratica, viola l’obiettivo democratico e partecipativo. Sul sistema dei prezzi
si basano le forme di socialismo autogestito finendo il più spesso nel peggiore
dei mondi possibile: si ereditano sia i difetti del sistema dei prezzi che
quelli della gerarchia, che non può non riemergere (magari in forme
peggiorative) nelle aziende autogestite (Foley, II, pp. 6-7).
Il sistema dei prezzi, in
breve, funziona sul principio che se il prezzo di un bene non copre i costi di
produzione, ciò rivela che se ne è prodotto troppo rispetto alla domanda; se ne
dovrà dunque produrre di meno sino a quando il prezzo eguaglia i costi di
produzione (che è pari al “prezzo naturale” come si sarebbe espresso Smith). Se
invece esso è venduto a un prezzo superiore ai suoi costi, allora si vede che
se ne è prodotto troppo poco rispetto alla domanda, e se ne dovrà produrre di
più. I prezzi di mercato dunque, se troppo alti o troppo bassi rispetto ai
costi di produzione (ai “prezzi naturali”) segnalano quanto produrre di ciascun
bene date le preferenze espresse dalla domanda. Per Smith i prezzi naturali
svolgono dunque un ruolo essenziale nel coordinare le decisioni di produzione
in una economia in cui viga una accentuata divisione del lavoro; essi
costituiscono la famosa “mano invisibile”. La mano invisibile è un modo di
economizzare in informazione. Marx parla dei prezzi “naturali” come la stella
polare dei capitalisti.
Marx è anche critico,
tuttavia, di un sistema sociale il cui tessuto connettivo, il rapporto fra gli
individui, è mediato dal rapporto di scambio, dal rapporto fra cose (le merci).
In questo egli vide la necessità di un superamento del sistema dei prezzi. Più
concretamente egli vide la necessità di un superamento di un società dualistica
in cui una classe controlla i mezzi di produzione e l’altra non ha che i propri
servizi lavorativi da offrire. Il controllo sociale dei mezzi di produzione è
per Marx il primo passaggio verso una società diversa (Marx 1875). Il controllo
sociale dei mezzi di produzione implica la pianificazione socialista (e su
quali principi essa possa funzionare discuteremo fra poco). Su quali principi
debba funzionare la successiva società
finalmente liberata Marx (ibid, p. 962) non va oltre il famoso passo “a
ciascuno secondo ...”:
In una fase piú elevata della società comunista,
dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla
divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e
fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il
primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui
sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza
collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte
giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue
bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!
Il che però non sembra
indicare di per sé un anarchismo delle relazioni, in quanto persino nel
comunismo vi sono doveri (ognuno secondo le sue capacità) e diritti (a ognuno secondo i suoi bisogni).
Engels (1972) sembra andare anche oltre. Così scrive a proposito di Bakunin e dell’idea “bakuniana
di società futura”: “In questa società, prima di tutto, non esiste nessuna autorità, perché autorità = Stato = male
assoluto. (Come faranno costoro a far marciare una fabbrica e le ferrovie, a
comandare un bastimento, senza una volontà che decida in ultima istanza, senza
una direzione unitaria: questo, naturalmente, non lo dicono). Anche l’autorità
della maggioranza sulla minoranza cessa di esistere. Ogni singolo e ogni
comunità sono autonomi; Bakunin però dimentica ancora una volta di dirci come
sia possibile una comunità anche solo di due uomini senza che ognuno di essi
rinunci a qualcosa della sua autonomia” (corsivo di Engels). Dunque nonostante
la “scomparsa[della]
subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro” (Marx),
come “faranno costoro a
far marciare una fabbrica e le ferrovie, a comandare un bastimento, senza una
volontà che decida in ultima istanza, senza una direzione unitaria”? (Engels). Insomma
i nostri due amici ci lasciano un po’ in mezzo al guado. Può darsi che Engels
ancora si riferisca alla fase della “dittatura del proletariato”. Ma come
faranno i nostri due amici dopo la dittatura “a far marciare” questo e quello “senza
una volontà che decida in ultima istanza, senza una direzione unitaria”?
3. Non importa se il gatto sia bianco o sia nero
In questa situazione di
incertezza fu gioco facile per Enrico Barone (1908) argomentare che, comunque
sia, un’economia socialista non potrà che imitare i medesimi meccanismi di
allocazione delle risorse del sistema di mercato, cambia solo il management,
per così dire. Sicché alla mano invisibile si sostituisce quella visibile della
pianificazione, ma in fondo il problema del pianificatore rimarrà quello di
imitare al meglio i meccanismi di mercato. Barone ha chiaramente in mente
l’equilibrio economico generale marginalista, un sistema complesso di equazioni
di domanda e offerta di merci e di “fattori produttivi” che determina l’output
e la sua distribuzione sulla base delle preferenze dei consumatori, delle
dotazioni originarie di “fattori” (come lavoro, capitale e terra) e delle
conoscenze tecniche. Ebbene, un pianificatore efficiente non potrà far altro
che cercare di stimare quelle equazioni e allocare i “fattori” scarsi fra i
molteplici possibili impieghi cercando di soddisfare così le preferenze dei
soggetti.[4]
Foley (2017/I, p. 12) ci ricorda come in effetti la storia del socialismo, a
partire dalle prime scelte di Lenin, siano state un ping pong fra rigida
pianificazione ed elementi di mercato.[5] Ma
gioco facile ebbero anche i successivi economisti marginalisti come Ludwig Von
Mises a denunciare che i calcoli del pianificatore avrebbero richiesto milioni
di dati ed equazioni, una sfida insormontabile per chiunque. Più tardi Oskar
Lange (un marginalista socialista) sostenne che i computer avrebbero agevolato
i calcoli. Si può però facilmente ribattere che i computer hanno bisogno di
essere alimentati con le informazioni, e queste sono milioni - e inoltre non
statiche, cioè in continua evoluzione a causa, per esempio, del progresso
tecnico. Ecco allora il colpo finale di Friedrich Hayek: il vantaggio della
mano invisibile risiede proprio nella capacità dei prezzi di veicolare
l’informazione dispersa, ma non è solo questo. Il mercato offre anche gli
incentivi ai diversi livelli (dal manager all’artigiano al semplice esecutore)
perché ciascuno abbia l’interesse a condividere le informazioni (e a impegnarsi
a sfruttarle al meglio). Siamo tornati ad Adam Smith. Se si legge una storia
dell’economia sovietica, che essa abbia funzionato incontrando mille difficoltà
e problemi appare scontato: il miracolo appare che abbia, nonostante tutto, in
un qualche modo funzionato![6]
Se Atene piange... Molta di questa
discussione si basa su un equivoco assai poco notato. La mano invisibile dei
classici non implica la piena occupazione o la massimizzazione di un qualche
benessere sociale; quella dei marginalisti sì. Per questo i classici sono
compatibili con la “mano visibile” dell’intervento pubblico keynesiano.
Naturalmente ci muoviamo ancora nell’ambito dell’economia di mercato. In
sintesi: si può voler sostenere che il sistema dei prezzi abbia dei vantaggi
informativi; tuttavia da qui ad argomentare che il mercato sia il panglossiano
migliore dei mondi possibili ne passa assai.
Come argomenta Foley
(ibid, pp. 16-17), sebbene da un lato Marx abbia sfruttato le teorie di Smith e
Ricardo per dimostrare le contraddizioni del capitalismo, i due economisti borghesi
capirono bene i vantaggi del sistema dei prezzi come veicolo informativo, ma in
questo Marx non li seguì. Certo, Marx ritiene il sistema di mercato come
transeunte. Il dibattito classico su pianificazione versus mercato non si poté che svolgere, tuttavia, su un terreno
concreto, quello tecnico dei vantaggi
dell’uno o dell’altro sul piano della produzione e distribuzione di merci,
senza coinvolgere un mutamento dei rapporti sociali di produzione (nella fase
della pianificazione/dittatura del proletariato è la proprietà dei mezzi di
produzione a mutare, non la forma di produzione). Fatto sta che i socialisti
sono in difficoltà sia sui vantaggi relativi della pianificazione (l’obiettivo intermedio)– pur dando per
scontati i problemi del mercato – che su come prefigurare il superamento dei rapporti
sociali di produzione (l’obiettivo finale).
Sebbene si possa infine
concordare con Croce al quale, nella famosa polemica con Einaudi, dovette
sembrare eccessivo che l’edonismo o utilitarismo delle scelte del consumatore
assurgessero al livello dei grandi principi etici e di libertà, certo è che
alla stretta pianificazione socialista, specie considerate le gravi difficoltà
materiali in cui essa si svolse, corrisposero gravi illibertà. E se le proteste
verso l’illibertà possono avere motivazioni negli interessi privati calpestati
dalla rivoluzione, non è malizioso pensare che privilegi di varia natura si
siano diffusi nelle più alte sfere della nomenklatura. Lo Stato etico può
notoriamente giustificare molte ingiustizie.[7]
Il sovrappiù socialista. Lo Stato sovietico non
si trovò solo ad affrontare le difficoltà della pianificazione, una volta
rinunciato al sistema dei prezzi. Quest’ultimo non avrebbe certo risolto il
problema dell’accelerazione dell’industrializzazione volta a modernizzare il
paese a scopo civile e militare. Il problema, in termini elementari, fu quello
di ottenere una misura sufficiente di sovrappiù di beni di sussistenza agricoli
a buon mercato per sostenere lo sforzo di milioni di lavoratori nell’industria
manifatturiera. Il dilemma fu fra l’incentivare la produzione agricola
indipendente attraverso un sistema di prezzi di mercato, il che però avrebbe
reso i beni agricoli più costosi, ovvero l’estrazione forzata del sovrappiù
agricolo irrigimentando i contadini in fattorie di Stato o cooperative, a
discapito dell’efficienza produttiva.
4. Lavorare con lentezza.[8]
Abbiamo detto che la
pianificazione conduce, almeno per come la conosciamo, a una gerarchizzazione
delle scelte produttive che impone che gli ordini vengano assegnati ed eseguiti
top-down. Anche ammettendo, per amor
di ragionamento, che questo modo di gestire l’economia funzioni a dovere, ci
dobbiamo chiedere se, tuttavia, gli ordini verranno doverosamente eseguiti. Il
socialismo sembra infatti soffrire di un male del tutto analogo a quello del
capitalismo: ove viga la piena occupazione – e nel socialismo questa è
assicurata[9]
- i lavoratori comuni, occupati nelle
mansioni più noiose o fisicamente spiacevoli lavoreranno il minimo possibile.
Secondo alcuni questo diffuso problema – che nei paesi capitalistici ritroviamo
spesso nel pubblico impiego (con nostra indignazione e frustrazione) – avrebbe minato alla radice la produttività
del sistema socialista. Il capitalismo ha risolto questo problema in due
direzioni:[10]
la minaccia della disoccupazione (appunto assente nel pubblico impiego) e
l’incentivo a una ascesa sociale per sé e per i propri figli (“Keep up with the
Joneses”). Un’economia socialista, a meno di abiurare ab ovo ai suoi obiettivi, si trova priva di questi “strumenti” di
stimolo al lavoro.[11]
Gli incentivi morali sono efficaci su alcuni, non su tutti. Da uno studio condotto
al principio degli anni settanta in una fabbrica francese si evinse che il
ritmo naturale di lavoro era... non lavorare affatto. Misure sono evidentemente
possibili; oltre al miglioramento delle condizioni oggettive di lavoro, le
proposte sono fondamentalmente basate su qualche forma di rotazione delle
mansioni, oppure su compensazioni materiali come una significativa riduzione
dell’età pensionabile per i “lavori usuranti”. Naturalmente obiezioni di vario
tipo possono sorgere: è ragionevole impiegare gli individui più brillanti e
socialmente utili in mansioni semplici? Basteranno queste misure a scoraggiare
i comportamenti opportunistici, oppure serve comunque un grado di controllo e
coercizione (bastone e carota?).
Inoltre, mi sembra che
quest’ordine di problemi non riguardi in realtà solo le mansioni semplici e più
spiacevoli, ma anche quelle più di concetto: qui è anche l’assenza di incentivi
materiali o di gratificazioni morali, o un senso di ingiustizia e frustrazione
in catene di comando in cui l’arbitrio e gli errori la fanno da padroni, a
scoraggiare l’impegno lavorativo. Siamo di nuovo tornati, sembra, all’uso inefficiente
dell’altruismo: come suggerito da Robertson, il mercato lo risparmia nella
sfera economica, sì da lasciarne in abbondanza in quella privata, per gli
affetti e per la compassione per i più sfortunati. Il socialismo ne richiede
molto a tutti, decisamente troppo per i più. Qualcuno assimilerebbe questo
stato alla tragedia dei beni comuni, dove il bene comune è un’economia
condivisa.
Poco studiati a sinistra
(se la sinistra studiasse) sono i lavori di Elinor Ostrom, più ottimisti sulla
possibilità della prevalenza di comportamenti cooperativi nelle popolazioni
umane in quanto ricompensati dai vantaggi della cooperazione:
“With
the publication of The Logic of
Collective Action in 1965, Mancur Olson challenged a cherished foundation
of modern democratic thought that groups would tend to form and take collective
action whenever members jointly benefitted. Instead, Olson (1965, p. 2) offered
the provocative assertion that no self-interested person would contribute to
the production of a public good: ‘[U]nless the number of individuals in a group
is quite small, or unless there is coercion or some other special device to
make individuals act in their common interest, rational, self-interested
individuals will not act to achieve their common or group interests.’ … recent
developments in evolutionary theory - including the study of cultural evolution
- have begun to provide genetic and adaptive underpinnings for the propensity
to cooperate based on the development and growth of social norms. Given the
frequency and diversity of collective action situations in all modern
economies, this represents a more optimistic view than the zero contribution
hypothesis. Instead of pure pessimism or pure optimism, however, the picture
requires further work to explain why some contextual variables enhance
cooperation while others discourage it”. (Ostrom 2000, pp. 137 e 154).
La questione sembra
essere che i comportamenti collettivi certamente esistono, sostenuti da adeguate
norme sociali che sanzionano le violazioni, ma sono frutto di lente e fortunate
evoluzioni più accentuate peraltro in determinate società umane che in altre,
mentre il socialismo intende forzare “a freddo” questi comportamenti su
individui e collettività impreparate, e spesso con condizioni materiali non
favorevoli. Questo non implica, naturalmente, che dall’esperienza non si possa
imparare.
5. Sinistra e prospettiva socialista
La somma dei due problemi,
uno macro e uno micro per così dire, da un lato il funzionamento precario della
pianificazione (allo stadio delle nostre conoscenza) dal punto di vista della gestione
dei flussi informativi e, dall’altro, lo scarso incentivo alla partecipazione
attiva alla produzione se non su base volontaristica creano una miscela
esplosiva. Se c’è una inefficienza endemica del sistema macro condita con
gerarchizzazione e arbitri e un regime politico illiberale e soffocante, questo
non può che riverberarsi sul morale e la partecipazione dei lavoratori (a ogni
livello) creando frustrazione e free
riding.
La fine del socialismo
reale è alla base della tragedia della sinistra, e questo viene poco percepito.
Senza una alternativa socialista da contrapporre al capitalismo che coniughi
benessere e libertà la battaglia per la giustizia è indebolita. Deve essere
questa una rinuncia definitiva? Assolutamente no. In primo luogo il capitalismo
scatenato che abbiamo conosciuto gli ultimi anni ha accentuato la
diseguaglianza e demolito diritti e sicurezze, almeno nei paesi di più antica
industrializzazione. La distruzione ambientale è a uno stadio molto avanzato.
Abbiamo naturalmente conosciuto un capitalismo diverso, quello degli “anni
gloriosi”, ma come ci siamo molte volte detti, anche questo è stato un
risultato della sfida socialista, del timore che questa avesse successo. Quando
quella è fallita, il capitalismo ha riproposto il suo volto ottocentesco, che
risparmierà pure in “altruismo”, ma dispensa a piene mani miseria e
mortificazione. L’idea che le vite non possano essere alla mercé del mercato e
che la sicurezza di uno standard di vita di qualità “dalla culla alla tomba”
sia assicurato è una rivendicazione sacrosanta. Qui e lì si sono manifestati
dei “Polanyi moment”, di ribellione al mercato, spesso rivolti a destra (come
Polanyi ci aveva avvertito). A uno stadio più minimale ma cogente, ci si
dovrebbe domandare come potrebbe sopravvivere un Paese che volesse per volontà
popolare distaccarsi dal ciclo capitalistico internazionale (o dall’euro). E
naturalmente le nostre menti migliori dovrebbero esplorare elementi per un
futuro socialista che attenui i problemi sopra illustrati (e i molti altri che
a me sfuggono, il benaltrista è sempre in agguato).
Fa dunque ancor più
sconcerto vedere la sinistra italiana impegnata esclusivamente in un
chiacchiericcio elettorale, l’unico che sa perseguire, l’unico che conosce.
Post scriptum
In alcuni commenti un
paio di amici hanno entrambi sottolineato come l’efficienza non sia
necessariamente una meta del socialismo. L’assenza di un dibattito “onesto” in
merito avrebbe in particolare reso i lavoratori poco consapevoli dell’esistenza
d un trade-off fra impegno lavorativo e quantità e qualità dei beni
disponibili. Ma di nuovo, un dibattito “onesto” in che altro si sarebbe risolto
se non in un appello alle coscienze? I miei interlocutori hanno inoltre
segnalato il problema della scarsa innovazione nel socialismo reale, almeno nei
beni di consumo, senza un’efficace trasferimento di tecnologia fra settori
(come dal militare al civile). E questo ancora ci rimanda all’inefficienza del
piano nel trasferire tecnologia, nell’assenza di incentivi individuali ecc. Non
ritengo questi problemi insolubili, per esempio le imprese e la ricerca
pubblica nell’esperienza delle economie miste si sono rivelate molto
efficienti, ma è alla logica del “bastone e carota” che dobbiamo probabilmente
adeguarci, per un bel po’ di tempo ancora, temo. Il meglio è nemico del bene.
Riferimenti
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* <Che cosa economizza
l’economista? “’Questo amore, questo amore’,
disse la Duchessa, “che fa muovere il mondo’. ‘Qualcuno ha detto’ mormora
Alice, ‘che questo è fatto da coloro che badano ai propri affari’. ‘Ah bene’,
replicò la Duchessa, ‘significa più o meno la stessa cosa’” ..se noi economisti
badiamo ai nostri affari , e li badiamo bene, noi possiamo, io credo, contribuire
vigorosamente ad economizzare, vale a dire alla piena ma parsimoniosa
utilizzazione, di quella risorsa scarsa Amore – che noi sappiamo, proprio
altrettanto bene di chiunque altro, essere la cosa più preziosa al mondo>
(corsivo nell’originale).
[1] Che lo stato di natura
coincida col mercato e lo scambio è negato dalla tradizione di Polany. Un vero
comunismo primitivo si ha tuttavia (probabilmente) solo prima dell’emergere del
sovrappiù (Diamond 1997). Col sovrappiù emergono il conflitto per la sua
appropriazione e dunque le diseguaglianze, ed anche lo scambio fra le diverse
comunità delle quote superflue del rispettivo sovrappiù (superflue dal punto di
vista di chi controlla quest’ultimo).
[2] Robertson era famoso per
le citazioni da Alice. Quella in apertura è ripresa, appunto, dal saggio di cui
parliamo.
[3] Miracolosamente il
centro sociale in oggetto tira avanti con soddisfazione, certo da ultimo in
virtù di un gruppo più o meno ampio di volenterosi, ma comunque con lamentele continue su chi sfrutta la buona volontà altrui. Fra i volenterosi le motivazioni sono poi le più varie: dai più leninisti che desiderano spargere i semi della rivoluzione (e che dunque forse soffrono meno sentendosi avanguardia), a chi lo fa semplicemente per rendere più vivibile il quartiere dove vive, a chi cerca esperienze di condivisione. Si tratta di “sperimentazioni
sociali” che andrebbero comunque sostenute dagli enti locali.
[4] Azzardo ad
affermare che la medesima problematica si applicherebbe se si usassero prezzi
alla Sraffa. Si ragionerebbe tuttavia su una teoria meglio fondata.
[5] Foley assimila gli
esempi della NEP sovietica (il periodo post-rivoluzionario in cui Lenin suggerì
di affidarsi al sistema dei prezzi) alla politica di Deng Xiaoping, l’artefice
dell’apertura della Cina Popolare al mercato. Giacché (2017) si addentra nelle
difficili scelte di Lenin nei primi anni della rivoluzione.
[6] Anche sul piano delle
gerarchie il capitalismo può apparire più efficiente. Le innovazioni
organizzative si basano infatti su rendere i flussi informativi quanto più
efficienti e bottom-up, mentre sono
piuttosto le decisioni conseguenti a essere top-down.
La gerarchia pianificatoria rende invece informazioni e decisioni entrambe top-down.
[7] Ernesto Screpanti (2007)
si addentra in alcuni di questi problemi in Marx.
[8] “Lavorare con lentezza
senza fare alcuno sforzo la salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo
pausa pausa ritmo lento, pausa pausa ritmo lento...” (Del
Re Enzo, LP Il banditore, 1974)
[9] Non saprei dire quanto
dell’occupazione sia effettivamente giustificata da ragioni produttive.
[10] Ringrazio Meri Lucii e
la compianta Federica Roà per alcuni suggerimenti in merito basati sula traccia
di alcuni documenti inediti di Garegnani (che a sua volta ne aveva discusso con
Sraffa).
[11] Il capitalismo ha anche
affinato il controllo dell’impegno dei lavoratori attraverso l’organizzazione
scientifica del lavoro (Braverman 1974). E’ vero che il socialismo potrebbe
adottare tali metodi (e probabilmente l’avrà in certa misura fatto), ma senza
la minaccia di licenziamento ogni misura sarà inefficace.
La robotica darà sicuramente delle risposte nel campo produttivo nei prossimi 20/30 anni. Il lavoro sarà completamente sostituito? Chi ne trarrà i vantaggi? I sovietici avevano il cosmismo, noi il transumanesimo. Sarà questa la risposta definitiva? Ha pensato a questa possibilità prof. Cesaratto? I tempi tecnici per l'intelligenza artificiale e la robotizzazione dell'economia (ammesso che la produzione di merci e il loro spostamento sia ancora importante in futuro visto che ormai con le stampanti in 3d tra poco si farà tutto in casa). E in questo scenario i tempi corrono molto più di quanto si possa pensare.
RispondiEliminaFermi restando gli ideali di giustizia del socialismo si potrebbe provare a considerare le cose sotto un altro punto di vista ossia partendo dal presupposto, che appare inconfutabile dall'esperienza, che disuguaglianza, gerarchia e coercizione (per esempio la necessità di poter licenziare come deterrente per mantenere la disciplina, di cui lei parla nella nota) non solamente sono inevitabili ma la gente ci si adatta per lo più di buon grado e anzi spesso si fida esclusivamente di una autorità che sappia dimostrarsi inflessibile quando è necessario.
RispondiEliminaL'ingiustizia del capitalismo (che è la stessa del socialismo per chi ha conosciuto l'URSS o la Cuba di Fidel Castro) non è quindi nel pacchetto “disuguaglianza, gerarchia, coercizione” ma nel fatto che i figli siano costretti a ereditare la condizione socio economico culturale dei genitori o anche dei nonni.
In altre parole a mio avviso la chiave che risolve l'impasse è la mobilità sociale ossia limitare al massimo la possibilità di mantenere e tramandare una rendita di posizione.
Si può diventare ricchi senza limiti ma non si può ereditare tutta quella ricchezza.
Se si riescono a rendere precarie le rendite di posizione proprio quella stessa precarietà e l'aumentata facilità non solo di salire ma anche di scendere nella scala sociale contribuirebbe a sdrammatizzare le differenze di classe, spingerebbe i cittadini a richiedere un welfare sempre più di qualità perché il momento di necessità potrebbe capitare facilmente a chiunque (a causa appunto dell'incrementata “fluidità” sociale che è il termine tecnicamente corretto) e (ri)nascerebbe uno spirito di solidarietà “dal basso” che è l'unico concepibile (visti i risultati di quello imposto dall'alto. Non ho mai trovato un desiderio cosí sfrenato di distinzione sociale come nella Cuba comunista. Un tassista mi diceva che aveva un sacco di donne in famiglia e avrebbe potuto aprire un bellissimo bordello ma Castro glielo impediva per cui faceva come era costume all'inizio degli anni novanta nell'isola: ti portava la parente sotto l'albergo magnificandone le abilità. D'altra parte gli errori di politica economica cubana erano stati devastanti come quando di fronte all'incapacità di allevare bovini e ovini avevano invitato la popolazione ad andare a pesca. Nel giro di pochissimi anni il pesce era finito e avevano dovuto mettere il blocco biologico su tutte le specie. A quel punto non sapevano più cosa fare e qualcuno propose di chiudere un occhio sulla prostituzione turistica sulla quale fino a quel momento erano severissimi e il regime si salvò in maniera “boccaccesca”. Il mestiere antico lo si pratica ovunque ma a Cuba all'inizio degli anni novanta era una cosa che lasciava interdetto anche il più incallito viaggiatore esperto del resto del Sudamerica. Nel frattempo mentre la gente mangiava pochissimo una sola volta al giorno, carne una volta all'anno, gli alti papaveri del partito vivevano in villette fortificate con la telecamera lungo la strada che portava all'aeroporto in modo da poter fuggire rapidamente se le cose si fossero messe male.
Il bene nazionale era “il turista” per cui la carne la potevano mangiare solo loro.
Come potrà facilmente verificare su internet l'uccisione di una vacca comportava - e forse comporta ancora - una pena detentiva superiore a quella per omicidio).
SEGUE
RispondiEliminaOccorre un cambio di paradigma che potrebbe avvenire se gli intellettuali, i partiti e i sindacati si rivolgessero alle classi meno abbienti mettendo in luce la feroce ingiustizia che li costringe a generare figli che nella stragrande maggioranza dei casi dovranno adattarsi a mestieri umili, precari e in posizione di pesante subordinazione.
Cioè se questa idea diventasse il pilastro centrale di una nuova ideologia.
A dispetto dei discorsi sulla “natura umana” siamo animali culturali: i paradigmi della convivenza e dei rapporti fra le classi li creiamo noi con la nostra prassi.
Se la mettiamo in atto...
Perché la classe media dovrebbe accettare di ridurre il privilegio per i propri figli, segnatamente quello di un accesso enormemente facilitato nel mondo del lavoro?
Perché la classe media oggi è sotto attacco esattamente come i lavoratori e il suo capitale di classe, che è quello della cultura e della conoscenza, viene metodicamente svilito e asservito con il risultato chei figli di oggi hanno molte più difficoltà dei loro padri e i nipoti rischiano la proletarizzazione.
La classe media ha come sola speranza quella di rivolgersi al popolo con il quale, al contrario delle oligarchie internazionali, ha ancora un fortissimo rapporto diretto (vedi Berlusconi - per il quale non ho mai votato - che è ricco come un membro della élite ma è evidentemente un uomo di classe media italiana ed è sempre seguitissimo).
L'unica cosa che possono realmente offrire alle classi (più) subalterne sono appunto nuovi rapporti sociali.
Forse, essendo gli intellettuali e i capi di partito per lo più classi medie, non è un caso che il problema della mobilità compaia solo di sfuggita in qualche discorso e non faccia parte esplicitamente di alcun programma.
Credo che la questione dell'ascensore sociale e l'insistenza sulla necessità di imparare economia, finanza e qualche tesi di storia economica ai licei, potrebbero essere argomenti fortissimi in grado di ideologizzare nuovamente il confronto fra le classi sociali
E un acceso sentimento di “lotta di classe” costituisce l'unica vera forza contrattuale delle classi piu subalterne.
Ma allo stato in cui siamo solo gli intellettuali sono in grado di recuperare e diffondere uno spirito di rivalsa e di ribellione.