Pubblichiamo una introduzione di Saverio Fratini al dibattito sulla teoria marginalista del capitale pubblicata sulla gloriosa rivista Critica Marxista, che ringraziamo unitamente all'autore. Il tema è molto difficile (anche per me!), ma Fratini ci aiuta a farcene un'idea. Per i più giovani, l'invito è a cimentarsi con questa tematica, a mio avviso la ragione (analitica) più forte per non dirsi marginalisti. Fratini è docente a Roma 3.
Fratini, S.M. 2016. ‘La teoria del capitale a
cinquant’anni dal dibattito tra le due Cambridge’. Critica Marxista, 4-5, pp. 64-71.
La
teoria del capitale a cinquant’anni dal dibattito tra le due Cambridge.
di
Saverio M. Fratini
Ricorre quest’anno il cinquantesimo
anniversario del simposio “Paradoxes in Capital Theory”, pubblicato nel 1966 sul
Quarterly Journal of Economics, nel
quale furono presentati i risultati di una controversia scientifica che era in
realtà iniziata alcuni anni prima, con la pubblicazione, nel 1960, del libro di
Sraffa Produzione di Merci a Mezzo di
Merci.
Nel suo libro,
Sraffa aveva mostrato che, facendo riferimento ad una situazione caratterizzata
dall’uniformità del tasso del profitto in tutti i settori e dalla stazionarietà
dei prezzi relativi,[1]
il legame tra i prezzi delle merci e le variabili distributive—saggio del
salario e tasso del profitto, in particolare—può essere complesso e
imprevedibile, tanto che a fronte della variazione della distribuzione in una
stessa direzione, ad esempio un continuo aumento del tasso del profitto, il
prezzo relativo di due merci può crescere e diminuire a tratti alterni. Ciò, di
fatto, svuotava di significato l’idea che diversi metodi di produzione di una
certa merce potessero essere ritenuti a maggiore o a minore intensità di
capitale,[2]
come se si trattasse di una proprietà di natura tecnica. Infatti, dipendendo i
prezzi dei beni capitale dal saggio del salario e dal tasso del profitto,
l’ordinamento dei metodi di produzione sulla base dell’impiego di capitale per
unità di lavoro sarebbe, in generale, cambiato al variare della distribuzione
del reddito: il metodo inizialmente a più bassa intensità di capitale può
diventare quello a maggiore intensità di capitale per un diverso livello delle
variabili distributive.
Veniva quindi meno
una delle fondamenta su cui la teoria neoclassica o marginalista della
distribuzione era stata costruita, l’idea secondo la quale il capitale doveva
essere visto come un fattore produttivo, ovvero un input, sullo stesso piano
del lavoro, tanto da giustificare una spiegazione simmetrica—in termini di
equilibrio tra domanda e offerta—del tasso del profitto (o dell’interesse[3])
e del saggio del salario, intesi entrambi come prezzi di fattori produttivi. Con
ciò il marginalismo intendeva infatti contrapporsi rispetto alla teoria degli
economisti classici—di Ricardo e di Marx in particolare—secondo cui, invece, i
redditi dei capitalisti avevano natura residuale, trattandosi di un sovrappiù o
plusvalore del prodotto rispetto ai costi necessari per il suo ottenimento.[4]
Samuelson
e il capitale-gelatina
Ai risultati
presentati nel suo libro da Sraffa—che si trovava a Cambridge nel Regno Unito—aveva
risposto due anni dopo[5]
Samuelson—che si trovava invece all’MIT, cioè a Cambridge in Massachusetts.
Partendo da un modello di economia in cui uno stesso bene di consumo avrebbe
potuto essere ottenuto attraverso l’impiego di molte tecniche diverse e
alternative, ciascuna caratterizzata dall’impiego di beni capitale di tipo
specifico, Samuelson aveva tentato di argomentare l’esistenza di una “gelatina”
in grado di prendere la forma fisica dei diversi tipi di beni capitale e tale
che, cambiando la tecnica adottata e quindi il tipo di beni capitale usati, la
variazione del prodotto finale ottenuto per unità di lavoro potesse essere
vista come dovuta al cambiamento della quantità impiegata di questa gelatina relativamente
al lavoro.
Poiché la tecnica
che le imprese hanno convenienza ad adottare si dimostrava dipendere dal
livello del tasso dell’interesse, l’argomento di Samuelson avrebbe tenuto
qualora si fosse potuto dimostrare che una diminuzione del tasso dell’interesse
avrebbe inevitabilmente condotto all’adozione di tecniche che, a parità di
lavoro, impiegano una maggiore quantità di gelatina e danno un maggior output. Proprio
in questa direzione sembrava andare il contributo[6]
di Levhari—un allievo di Samuelson—secondo cui una tecnica che era stata scelta
e poi scartata in seguito ad una riduzione del tasso dell’interesse, non
sarebbe potuta tornare in uso ad un livello del tasso dell’interesse ancora più
basso. Tuttavia, come fu inequivocabilmente stabilito proprio nel simposio[7]
di cui ricorre il cinquantenario, il teorema di Levhari era falso. Pasinetti e
Garegnani—due economisti della scuola anglo-italiana che faceva riferimento a
Sraffa—oltre a Morishima e Sheshinski, erano stati in grado di dimostrare,
attraverso opportuni controesempi, che il “ritorno delle tecniche” (o re-switching), contrariamente a quanto
Levhari aveva tentato di dimostrare, era possibile.
La possibilità del
ritorno delle tecniche era sufficiente a far crollare la costruzione di
Samuelson. Il fatto che una stessa tecnica di produzione del bene finale
potesse essere adottata, cioè risultasse ottimale per le imprese, in
corrispondenza di due diversi livelli del tasso dell’interesse, ma non per
alcuni livelli compresi tra di essi, dimostrava definitivamente l’infondatezza
dell’idea dell’esistenza di un fattore produttivo capitale, da impiegare
insieme al lavoro in proporzioni variabili, e, quindi, del tasso dell’interesse
come il prezzo da pagare per il suo uso. Come Samuelson stesso ammise nello
scritto conclusivo di quel simposio, la parabola neoclassica secondo cui la
riduzione del tasso dell’interesse avrebbe condotto all’adozione di tecniche
“più indirette”, “più produttive” o in qualunque senso “a maggiore intensità di
capitale”, non può essere ritenuta valida.
L’inizio
di una nuova fase della controversia
Stabilito ciò,
qualora gli economisti neoclassici avessero voluto perseverare nel ritenere il
tasso dell’interesse come un prezzo che si stabilisce tramite domanda e offerta
di capitale,[8]
avrebbero incontrato il problema della possibile “inversione dell’intensità
capitalistica” (o reverse capital
deepening), ovvero della diminuzione, invece che dell’aumento, della
domanda di capitale (a parità di lavoro) a fronte di una riduzione del tasso
dell’interesse, con il conseguente rischio di instabilità dell’equilibrio.[9]
Questo argomento fu utilizzato per la prima volta in un articolo di Garegnani
pubblicato nel 1970.
Quest’articolo può
essere visto come una sorta di spartiacque tra la fase iniziale e una nuova
fase del dibattito.[10]
Infatti, in primo luogo, per la prima volta il ritorno delle tecniche e
l’inversione dell’intensità capitalistica della produzione venivano indicati
come possibili cause di instabilità degli equilibri neoclassici tra domanda e
offerta. Tema questo che, come diremo in seguito, sarebbe stato poi ripreso in
altri contributi di vari studiosi. In secondo luogo, Bliss, nel suo commento pubblicato
insieme all’articolo di Garegnani, pose l’attenzione sulle moderne versioni
della teoria neoclassica del valore, quelle neo-walrasiane,[11]
nelle quali le merci sono distinte anche per data di consegna, così che i
prezzi relativi possano cambiare con la data di consegna delle merci, e i mercati
per consegne a pronti e a termine sono, per ipotesi, aperti contemporaneamente.
Il riferimento
agli equilibri neo-walrasiani è caratteristico di questa nuova fase del
dibattito, nella quale il lato neoclassico non veniva più rappresentato da
Samuelson e dagli altri economisti dell’MIT, ma da Bliss e Hahn—due studiosi
inglesi[12]—seguiti
più recentemente da Mandler.
Bliss, nel suo
libro del 1975, e poi Hahn, negli articoli del 1975 e del 1982, mostrarono che
nei modelli di equilibrio intertemporale neo-walrasiani, partendo da date
dotazioni iniziali di merci e supponendo mercati a termine completi ed aperti
simultaneamente alla data iniziale, si poteva giungere alla determinazione del
sistema dei prezzi (a pronti e a termine) sulla base dell’equilibrio di domanda
e offerta, senza alcuna necessità di aggregare i beni capitale né in termini di
valore, né tramite qualche fantomatica gelatina. Quindi, secondo Hahn, gli
argomenti critici utilizzati dagli economisti da lui chiamati
neo-ricardiani—cioè, essenzialmente, gli studiosi che facevano riferimento a
Sraffa—si rivolgevano a versioni ingenue della teoria neoclassica, quelle
destinate agli studenti di primo anno, in cui per semplicità si aggrega, ma non
alle versioni più raffinate, quelle neo-walrasiane appunto.
Il
cambiamento della nozione di equilibrio
Bliss e Hahn
avevano quindi cercato di difendere la spiegazione dei prezzi e della
distribuzione in termini di equilibrio tra domanda e offerta sulla base della
concezione neo-walrasiana dell’economia che, secondo questi studiosi, sarebbe
stata immune dai problemi emersi relativamente all’idea del capitale come un
fattore produttivo, che è in effetti assente in tale impostazione. La reazione
di Garegnani—e di alcuni economisti a lui vicini—a questa tesi si sviluppò
attraverso due argomenti distinti. Il primo, di cui ci occuperemo tra poco,
riguardava il significato delle nozioni di equilibrio neo-walrasiane. Il
secondo, per il quale rinviamo al prossimo paragrafo, intendeva invece mostrare
la necessità che vi fosse, anche nei modelli neo-walrasiani, un mercato
specifico, quello dei risparmi e degli investimenti, di fatto analogo, almeno
per ciò che riguarda i problemi che da esso possono scaturire, al mercato del fattore
capitale presente nelle versioni tradizionali della teoria neoclassica.
Come si è
accennato all’inizio (si veda, in particolare, la nota 1), le teorie del valore
hanno tradizionalmente rivolto l’attenzione verso un sistema dei prezzi che
potesse essere visto come il centro attorno al quale orbitano, nel tempo, i
prezzi a cui effettivamente avvengono gli scambi. Quest’idea ha rappresentato,
e rappresenta tuttora, il solo possibile legame tra la realtà, costituita ad
esempio dai prezzi che si formano in ogni seduta della borsa merci di Chicago,
ed una delle parti più astratte dell’analisi economica, come la teoria del
valore. Se però adottassimo l’impostazione neo-walrasiana e quindi supponessimo
che l’equilibrio non determini il livello centrale attorno al quale i prezzi
effettivi possono gravitare nel tempo, ma piuttosto i prezzi delle merci per
ogni possibile data di consegna, quel legame tra teoria e realtà si spezzerebbe.
Nella concezione
tradizionale, i prezzi teorici e quelli effettivi, osservati alle diverse date,
sono generalmente diversi e ciò è perfettamente compatibile con la tendenza di
quest’ultimi ad orbitare attorno ai primi. Se invece, come avviene
nell’approccio neo-walrasiano, l’equilibrio è formato dai prezzi delle merci
consegnate in ogni periodo, allora non c’è nessuna possibilità di aggiustamento
o di tendenza dei prezzi effettivi verso quelli teorici. O i prezzi effettivi
delle merci consegnate ad una certa data, diciamo nel momento t, corrispondono, per un qualche caso
fortunato, con quelli inizialmente determinati dall’equilibrio per consegne a
quella data, oppure si passerà alla data successiva, t+1, e i prezzi effettivi e teorici alla data t rimarranno definitivamente diversi. In altri termini, visto che i
processi di aggiustamento o gravitazione richiedono tempo, essi non sembrano poter
aver luogo con riferimento ai prezzi di merci con specifiche date di consegna.[13]
Questo punto fu
sollevato per la prima volta da Garegnani durante il convegno tenuto alla State
University of New York di Buffalo nel 1974, i cui atti furono poi pubblicati
nel 1976, e ripreso pochi anni dopo da Petri (1978). Garegnani, in particolare,
sosteneva che l’accantonamento del metodo delle posizioni normali o di lungo
periodo, dovuto all’ascesa dell’approccio neo-walrasiano, fosse avvenuto a
scapito della significatività della teoria del valore, che si trasformava in
una specie di giocattolo intellettuale, sprovvisto di rilevanza per l’analisi
della realtà.
Inoltre, Garegnani
vedeva all’origine della deriva neo-walrasiana della teoria neoclassica,
proprio le difficoltà che questa aveva incontrato con riferimento al capitale
come fattore produttivo. Nel determinare la svolta, era stato centrale, secondo
Garegnani, il contributo di Hicks. Quest’ultimo aveva inizialmente tentato di adottare—nel
libro Theory of Wages del 1932—una
spiegazione della distribuzione in termini di sostituibilità (al margine) tra
fattori produttivi, ricevendo forti obiezioni dovute alla particolare natura
del fattore capitale, concepito come un aggregato, in valore, dei beni
capitale. Tali critiche indussero Hicks ad una profonda revisione del suo
approccio, fino ad intraprendere—con Value
and Capital (1939)—una strada nuova, che se da un lato recuperava alcune
caratteristiche della teoria di uno dei padri dell’approccio neoclassico, come Walras,
dall’altro obbligava all’abbandono dell’idea tradizionale di equilibrio come
centro di attrazione e all’introduzione di nuove nozioni di equilibrio, quelle
appunto utilizzate nell’approccio neo-walrasiano.[14]
L’equilibrio risparmi-investimenti
Il secondo
argomento introdotto da Garegnani—e poi ripreso da alcuni altri economisti—per
rispondere alla tesi di Bliss e Hahn, si basava, come detto, sulla possibilità
che i fenomeni del ritorno delle tecniche e dell’inversione dell’intensità
capitalistica comportassero molteplicità o instabilità degli equilibri anche
nei modelli neo-walrasiani, nonostante in questi il capitale non fosse
considerato come un fattore produttivo. L’idea di fondo di questo argomento era
che gli equilibri neo-walrasiani richiederebbero, in modo più o meno esplicito,
l’uguaglianza tra risparmi e investimenti di ciascun periodo. Essendo gli
investimenti il valore dei beni capitale nuovi acquistati dalle imprese, i
problemi derivanti dalla trattazione della domanda di capitale in valore
sarebbero potuti sorgere ancora attraverso la funzione, o la curva, degli
investimenti.
In particolare,
Garegnani,[15]
facendo riferimento allo stesso modello utilizzato da Hahn nel suo articolo del
1982, cioè un modello di equilibrio intertemporale di tipo Arrow-Debreu, aveva
cercato di dimostrare, in primo luogo, la presenza implicita di un mercato
risparmi-investimenti e, in secondo luogo, la possibilità di equilibri multipli
dovuti all’andamento non monotòno della curva degli investimenti nel caso di
inversione dell’intensità capitalistica.[16]
Quello
Arrow-Debreu è un particolare tipo di modello neo-walrasiano nel quale si
suppone che i mercati a pronti e a termine siano: i) completi, cioè vi sia la
possibilità di scambiare tutte le merci per ogni possibile data di consegna;
ii) di numero finito, ovvero vi sia un numero finito di possibili date di
consegna; iii) aperti tutti simultaneamente in un unico istante, l’istante
iniziale del primo periodo. Quest’ultima caratteristica ha importanti
implicazioni per il punto che stiamo esaminando. Infatti, da un lato, visto che
le imprese possono vendere l’output che otterranno nello stesso istante in cui
acquistano gli input che impiegheranno, nessuna anticipazione dei costi
attraverso il capitale è necessaria,[17]
ma i costi possono essere finanziati direttamente coi ricavi. Dall’altro lato,
essendo tutti i mercati aperti in un solo istante, l’intera capacità di spesa
dei consumatori dovrà essere esercitata in quell’istante, per l’acquisto di
merci consegnate poi alle varie date. Così, nel modello Arrow-Debreu,
risparmiare nel tentativo di trasferire potere d’acquisto a qualche data futura
sarebbe addirittura impossibile, poiché nessuna transazione può aver luogo dopo
l’istante iniziale.[18]
Si vede dunque che in questo modello non ci sono né gli investimenti delle
imprese, né i risparmi delle famiglie.[19]
Fu, di conseguenza,
piuttosto agevole per gli economisti neo-walrasiani—e per Mandler (2005) in
particolare—dimostrare che i problemi di molteplicità e instabilità degli
equilibri, nei modelli Arrow-Debreu, potevano derivare soltanto da fenomeni
riguardanti il lato delle scelte dei consumatori,[20]
mentre le decisioni delle imprese—tra cui quelle riguardanti i metodi di
produzione ed i beni capitale da impiegare—risultavano sostanzialmente
ininfluenti.
E’ stato inoltre
dimostrato (Fratini 2015) che il fenomeno del ritorno delle tecniche—almeno nel
modo in cui esso era stato concepito nel dibattito degli anni sessanta—non è
possibile nei modelli Arrow-Debreu. In particolare, affinché il ritorno delle
tecniche possa manifestarsi, occorre che il legame tra tasso dell’interesse e i
prezzi relativi sia del tipo che emerge quando quest’ultimi rimangono
stazionari, cioè lo stesso sistema di prezzi relativi si applica sia agli input
che agli output. Se invece i prezzi relativi delle merci consegnate alle
diverse date non rimanessero stazionari, il loro legame con le variabili distributive
si allenterebbe e si aprirebbe lo spazio per situazioni di coesistenza, invece
che di reciproca esclusione, dei diversi metodi per la produzione di una stessa
merce.
Tuttavia, sebbene
nella teoria neo-walrasiana i prezzi relativi delle merci consegnate alla data t possano essere, in generale, diversi
da quelli delle merci consegnate alla data t+1,
si possono benissimo concepire modelli in cui, per ipotesi, i prezzi relativi
rimangano stazionari. Anzi, se si escludono dinamiche caotiche, le posizioni di
equilibrio stazionario dovrebbero essere proprio ciò verso cui tendono i
sentieri di equilibrio (sequenziale) neo-walrasiano, su un arco temporale
sufficientemente lungo. Così, se si rivolge l’analisi a questi equilibri
stazionari, si scopre che non soltanto il ritorno delle tecniche è possibile,
ma si può perfino individuare un suo ruolo nel determinare la molteplicità e
l’instabilità delle soluzioni, proprio come si era inizialmente tentato di
fare, senza successo, con riferimento all’equilibrio Arrow-Debreu.
In questi modelli,
infatti, la stazionarietà dei prezzi relativi di periodo in periodo richiede
l’assenza di accumulazione netta di beni capitale (per unità di lavoro). Di
conseguenza, nel sistema delle condizioni di equilibrio stazionario deve essere
inclusa quella secondo cui i risparmi lordi consentano esattamente di
finanziare la riproduzione dei beni capitale impiegati, e questa condizione ha
caratteristiche assai simili alla condizione di equilibrio tra offerta e domanda
di capitale. In particolare, ci si aspetta che sia il livello del tasso
dell’interesse ad aggiustarsi in modo tale da rendere nulla l’accumulazione
netta, cioè da portare all’uguaglianza tra risparmi lordi e valore dei beni
capitale impiegati dalle imprese.
Così, con
riferimento ai modelli neo-walrasiani con prezzi stazionari, visto che in essi,
come detto, si può manifestare il ritorno delle tecniche, è stato possibile
mostrare che l’apparire di questo fenomeno può comportare: i) la molteplicità
dei livelli del tasso dell’interesse di equilibrio (Fratini 2007); ii)
l’instabilità (locale) degli equilibri, nel senso che livelli del tasso
dell’interesse appena inferiori di quello di equilibrio possono generare un
ammontare di risparmi lordi maggiore rispetto al valore della domanda di beni
capitale da parte delle imprese (Fratini 2013a).
Quindi, in ultima
analisi, la tesi avanzata da Garegnani, secondo cui anche i modelli
neo-walrasiani—pur non considerando il capitale come un fattore produttivo—non
sono immuni da problemi simili a quelli emersi nella prima fase del dibattito,
si è dimostrata corretta, sebbene nel contesto dei modelli stazionari,
piuttosto che in quelli Arrow-Debreu.
Conclusioni
Con riferimento ai
dibattiti di teoria del capitale, ciò che sorprende di più è sicuramente il
quasi totale disinteresse da parte della grande maggioranza degli economisti
contemporanei. Tanto gli studiosi di impostazione neoclassica, quanto quelli
eterodossi, con poche eccezioni, sembrano ritenere i risultati di queste
controversie—nel caso ne abbiano sentito parlare—delle curiosità per
specialisti, il cui interesse è confinato nei meandri più astratti della teoria
del valore e della distribuzione, senza alcuna rilevanza per i loro propri
studi ed analisi.
Così, il capitale
considerato come un fattore produttivo, sostituibile al margine col lavoro,
tanto da poter distinguere i diversi metodi (o tecniche) di produzione sulla
base del rapporto capitale/lavoro che essi richiedono, continua ad essere
presente non solo sui libri di testo destinati agli studenti di primo anno—come
aveva scritto Hahn—ma purtroppo anche in innumerevoli articoli pubblicati sulle
più prestigiose riviste scientifiche. Per non dire del ruolo svolto, nella
teoria mainstream della crescita,
dall’idea secondo cui il tasso dell’interesse, almeno nel lungo periodo,
sarebbe determinato dalla produttività (marginale) del capitale.
Le teorie
macroeconomiche che costituiscono l’ispirazione per le decisioni di politica
economica dei principali paesi del mondo utilizzano quasi sempre una
rappresentazione della produzione nella quale il capitale è uno degli input ed
il tasso dell’interesse è il prezzo da pagare per il suo uso. Analogamente, le più
diffuse interpretazioni dei fenomeni economici che accadono nel mondo, dalla
globalizzazione alla crisi finanziaria, si fondano su queste erronee
concezioni.
La teoria
economica più rigorosa, non mainstream,
sembra avere su di se una specie di maledizione di Cassandra. Essa non è in
grado, da sola, di fornire una analisi soddisfacente dei fenomeni economici—principalmente
perché quest’ultimi sono fortemente influenzati da una moltitudine di circostanze
di carattere sociale e istituzionale che difficilmente possono essere proficuamente
incluse al livello di astrattezza della teoria—ma risulta invece molto efficace
per mettere in luce i problemi e le incoerenze delle analisi superficiali e
difettose. Proprio come Cassandra, però, la buona teoria economica è quasi
sempre inascoltata.
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[1] Una tale situazione
teorica, che è detta “posizione normale” o “posizione di lungo periodo”, ha
rappresentato, fin dai tempi di Adam Smith, il punto di riferimento ideale per
l’individuazione delle determinanti persistenti dei prezzi relativi delle merci.
Solo di recente, come si dirà più avanti, tale metodo è stato in parte
accantonato per far posto alle nuove nozioni di equilibrio, come ad esempio
quella di Arrow e Debreu, in cui l’uguaglianza di domanda e offerta sui mercati
a pronti e a termine richiede, in generale, che i prezzi relativi cambino di
periodo in periodo.
[2] L’intensità
capitalistica di un certo metodo di produzione viene espressa solitamente
attraverso il rapporto tra le quantità di capitale e lavoro che esso richiede.
[3] Nel momento in cui,
con l’avvento della teoria neoclassica o marginalista, si è inteso il capitale
come un input, si è introdotta anche la distinzione tra i capitalisti, che sono
diventati meri fornitori di questo fattore produttivo, e gli imprenditori, cioè
coloro che organizzano la produzione, sostenendo i costi e incassando i
ricavi. Questa distinzione era naturalmente fittizia, poiché nella pratica, nei
sistemi capitalistici, gli imprenditori sono o i capitalisti stessi, o persone
da loro delegate. Essa, inoltre, richiedeva che i redditi dei capitalisti
fossero visti come parte dei costi sostenuti dagli imprenditori e non come il
residuo o plusvalore trattenuto da chi organizza la produzione. Così, la
differenza tra ricavi e costi, che chiamiamo naturalmente profitto, fu chiamata
extra-profitto ed assegnata agli imprenditori, mentre il profitto normale,
trasformato in interessi sul valore del capitale impiegato, fu incluso nei
costi. Pertanto, invece di parlare di tasso del profitto, gli economisti
neoclassici preferiscono parlare di tasso dell’interesse.
[4] Risulta piuttosto
evidente che la natura residuale dei profitti è in antitesi con la concezione
del tasso del profitto come un prezzo. Se il tasso del profitto (o
dell’interesse) fosse il prezzo per l’uso del capitale, i profitti dovrebbero
essere calcolati moltiplicando questo tasso per l’ammontare di capitale
impiegato e non come residuo tra il valore del prodotto e i costi.
[5] Il riferimento è
all’articolo di Samuelson del 1962.
[6] Levhari (1965).
[7] In realtà, i temi
del simposio erano stati in parte anticipati nel corso del primo convegno della
Econometric Society, tenutosi a Roma
nel 1965, nel quale Pasinetti aveva presentato una prima versione dell’articolo
del 1966.
[8] La concezione del
tasso dell’interesse come il prezzo che porta in equilibrio domanda e offerta
di capitale è caratteristica di quasi tutte le versioni tradizionali della
teoria neoclassica o marginalista. Scrive ad esempio Marshall che “l’interesse,
essendo il prezzo pagato per l’uso del capitale in qualunque mercato, tende
verso un livello di equilibrio tale che la domanda complessiva di capitale in
quel mercato, a quel dato saggio di interesse, sia eguale alla quantità
complessiva ivi disponibile a quel saggio” (Marshall 1959, pp. 504, 505).
[9] Per dare semplicemente
l’intuizione, possiamo dire che un equilibrio è stabile se, nel caso di una
piccola deviazione da esso, si mette in moto un processo che ci riporta verso
l’equilibrio. Per converso, un equilibrio che non è stabile, è instabile.
Facendo riferimento alla
normale dinamica di mercato, secondo cui il prezzo di una merce tende a
crescere se la domanda eccede l’offerta e a diminuire nel caso contrario,
l’equilibrio è stabile se variazioni del prezzo in più o in meno rispetto al
livello di equilibrio, generano variazioni di segno opposto della differenza
tra domanda e offerta. Se vi è invece concordanza di segno tra le due
variazioni, allora l’equilibrio è instabile.
Per i fondatori della teoria
neoclassica, la stabilità dell’equilibrio era una proprietà di grande
importanza poiché era vista come la garanzia che i normali meccanismi di
mercato sarebbero stati in grado di spingere l’economia verso la posizione di
equilibrio, conferendo quindi a quest’ultima rilevanza pratica—e non solo
teorica.
[10] Un ulteriore filone
del dibattito, di cui qui non ci occuperemo, ha riguardato il significato
dell’uguaglianza tra il tasso dell’interesse ed un presunto prodotto marginale
del capitale (in valore) che emergeva quando la tecnica adottata era fatta
variare, in seguito ad un cambiamento del tasso dell’interesse, mentre i prezzi
relativi erano tenuti costanti. Questa controversia ha inizialmente coinvolto
Pasinetti, da un lato, e Solow, dall’altro, ai quali si sono successivamente
aggiunti altri studiosi.
Senza entrare nei dettagli, ci limitiamo a
riportare che, come Pasinetti (1969) fu in grado di argomentare efficacemente,
quella uguaglianza aveva significato e caratteristiche molto diverse rispetto
alle uguaglianze tra i prezzi dei fattori ed il loro prodotti marginali di cui
la teoria avrebbe avuto bisogno per il suo corretto funzionamento. Per una
discussione più approfondita di questi argomenti, si veda anche Fratini (2013b).
[11] Non è possibile, né
opportuno, entrare qui in dettagli troppo tecnici, ci limitiamo quindi a dire
che Bliss, fraintendendo l’argomento proposto da Garegnani nel suo articolo
(che, in vero, non era stato posto in modo molto efficace), aveva creduto di
poter rispondere utilizzando il teorema di esistenza dell’equilibrio che Arrow e
Debreu avevano prodotto alcuni anni prima—nel 1954—con riferimento ad un
particolare modello di tipo neo-walrasiano.
In effetti, con il
diffondersi dell’impostazione neo-walrasiana—avvenuto gradualmente tra gli anni
trenta e sessanta del secolo scorso—le questioni dell’esistenza e della
stabilità—a sua volta collegata a quella dell’unicità—del sistema dei prezzi di
equilibrio, furono separate. Fu così possibile arrivare, abbastanza rapidamente,
ad una dimostrazione di esistenza dell’equilibrio, per i modelli Arrow-Debreu,
sotto condizioni piuttosto blande. Ben più complicate erano invece le questioni
della stabilità e dell’unicità. In particolare, come si scoprì negli anni,
molteplicità e instabilità degli equilibri non potevano essere escluse se non ricorrendo
ad ipotesi decisamente restrittive.
[12] Sebbene Hahn fosse
nato in Germania, si era trasferito con la famiglia nel Regno Unito durante
l’infanzia ed aveva acquisito la nazionalità britannica.
[13] Ciò, soprattutto
con riferimento all’equilibrio intertemporale Arrow-Debreu, è addirittura
ammesso da alcuni autorevoli economisti neo-walrasiani. Essi vedono tale
equilibrio non come un attrattore, ma piuttosto come un benchmak utile soltanto ad evidenziare le particolari e
irrealistiche condizioni sotto le quali il funzionamento dei mercati porterebbe
ad allocazioni delle risorse disponibili che siano ottimali da un punto di
vista sociale.
[14] Non è possibile
entrare qui nell’analisi necessaria per dimostrare la necessità dell’abbandono
dell’idea dell’equilibrio come posizione normale quando le quantità di beni
capitale impiegate inizialmente siano prese per date, come in Walras. Rinviamo
per essa al saggio di Garegnani (1976).
[15] L’argomento è stato
presentato da Garegnani in vari scritti, di cui il più completo è il saggio del
2003.
[16] Nel modello
considerato da Garegnani si assumeva che non vi fossero metodi di produzione
alternativi per la stessa merce e quindi il ritorno delle tecniche era
sicuramente impossibile.
In Schefold (2005), invece,
si proponeva un argomento di instabilità degli equilibri intertemporali
neo-walrasiani basato sul ritorno delle tecniche.
[17] Se ci si sbarazza dell’idea che il capitale
sia un fattore produttivo, il suo vero ruolo emerge con chiarezza. Come gli
economisti classici e Marx avevano ben presente, il capitale è ciò che consente
di finanziare l’avvio del processo produttivo, di coprire tutti quei costi che
devono essere sostenuti in anticipo rispetto alla vendita del prodotto e
l’ottenimento dei ricavi. I ricavi, quindi, consentiranno ai capitalisti di
recuperare le somme anticipate, lasciando però anche un profitto, cioè un’eccedenza
dei ricavi sui costi.
[18] L’ipotesi dell’apertura dei mercati nel solo
istante iniziale riveste importanza fondamentale nell’equilibrio Arrow-Debreu
ed è ciò che in sostanza lo distingue dagli equilibri temporanei. Infatti, se
tale ipotesi venisse rimossa e i mercati riaprissero in qualche momento
successivo, il comportamento degli agenti sui mercati aperti all’inizio sarebbe
influenzato dalle loro aspettative circa i prezzi che si potrebbero formare
alla riapertura dei mercati: al fianco delle transazioni per scopo di consumo e
di produzione, vi sarebbero le transazioni speculative generate da aspettative
al rialzo o al ribasso di alcuni prezzi relativi per le merci con consegna
futura. Esiste una vasta letteratura circa le numerose difficoltà che la teoria
può incontrare nell’includere questo genere di transazioni. Tutte queste
difficoltà sono evitate dall’equilibrio Arrow-Debreu.
[19] I primi dubbi circa
le nozioni di risparmio e investimento che Garegnani aveva utilizzato nel suo
contributo furono sollevati da Schefold (2008).
[20] Essendo il punto
molto tecnico, non è possibile qui dare nemmeno una intuizione dei fenomeni che
effettivamente potrebbero provocare la molteplicità degli equilibri, né del
ragionamento volto a dimostrare che solo questi sono rilevanti. Ci limitiamo a
dire che i problemi scaturiscono dalla aggregazione di reazioni diverse da
parte dei consumatori a fronte di una stessa variazione del sistema dei prezzi.
Così che se le scelte aggregate potessero essere ricondotte a quelle di un
agente rappresentativo dell’intera collettività, allora l’equilibrio sarebbe
generalmente unico e stabile.
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