Da http://cobaswhirlpoolsiena.blogspot.it/
Negli ultimi tempi sui giornali, su
internet o alla TV sempre più spesso capita di leggere o ascoltare
pessime notizie sul mondo del lavoro, in particolare la tendenza che
hanno le multinazionali come ad esempio l'ikea di chiedere o imporre un
"aggiustamento" ovviamente al ribasso dello stipendio. L'abbassamento del salario prende il nome
di "deflazione salariale", noi Cobas Lavoro Privato della Whirlpool di
Siena abbiamo chiesto quindi al Professor Sergio Cesaratto (Professore ordinario di Economia della crescita e dello sviluppo e di Politica monetaria e fiscale nell'Unione Monetaria Europea) di spiegarcene le cause e gli effetti, di seguito potete leggere l'articolo che gentilmente ha scritto su nostra richiesta.
La deflazione salariale spiegata ai compagni operai della Whirlpool (che la conoscono già)
Spiegare ai compagni della Whirlpool cosa
significhi deflazione salariale è in
un certo senso imbarazzante. Suppongo che loro sappiano benissimo cosa
significhi per averla provata sulla propria pelle. Il padrone glielo avrà
spiegato mille e una volta: in tanti altri paesi i salari sono molto, ma molto
più bassi che in Italia. Allora che fate? O i vostri salari diminuiscono,
oppure decentriamo la produzione (oppure chiudiamo e basta). E’ la
globalizzazione bellezza, e se a decidere è una multinazionale è ancor peggio
perché il ricatto di spostare la produzione è più forte.
BOX 1 Deflazione salariale vuol dire
competere con gli altri paesi giocando su un basso costo del lavoro. Si noti
che questo vuol dire rinunciare a un ampio mercato interno per i prodotti – se
i salari sono bassi, tali saranno anche i consumi – con l’obiettivo di
conquistare mercati esteri. La strategia di deflazione salariale è detta anche deflazione competitiva: si punta a
tenere prezzi e salari nazionali bassi per spiazzare i concorrenti sui mercati
esteri. L’obiezione fondamentale alla deflazione competitiva è che se tutti i
paesi adottano questa strategia, chi compra? E’ questo il nodo fondamentale del
capitalismo, per cui oggi si parla di stagnazione
secolare, un pericolo che deriva dal pauroso aumento della diseguaglianza.
Una prima linea di difesa dei
lavoratori è nella qualità del lavoro, che non è la medesima in tutti i paesi
ed è certamente più elevata in Italia. In sostanza quello che l’impresa
guadagna via minori salari se sposta la produzione, lo perde sul piano della produttività (prodotto per lavoratore).
Ma naturalmente questo è vero fino a un certo punto, in quanto le produzioni
più standardizzate sono facilmente trasferibili, e con macchinario adeguato la
produttività è la medesima. E’ solo quando il prodotto richiede conoscenze
molto puntuali e non facilmente trasferibili che ci si difende bene. Ma a quel
punto è il medesimo padrone a non voler trasferire la produzione, che viene
anzi spesso riportata in Italia dove i lavoratori sono più addestrati. Ma su
questo, di nuovo, siete voi che fate scuola a me.
Entro certi versi, quello che un
tempo si chiamava il ciclo del prodotto
è un fatto fisiologico. L’idea è che le produzioni più innovative svolte nei
paesi avanzati col tempo si standardizzino e vengono trasferite nei paesi più
arretrati, essendo sostituite con nuove produzioni innovative e così via. Un
tempo si riteneva anche che fosse compito dei governi stimolare questi processi
facendo scivolare il paese verso produzioni più sofisticate, cedendo quelle
meno avanzate ai paesi più arretrati.
In Italia questo upgrading è avvenuto in misura inferiore agli altri paesi avanzati,
e con delle peculiarità. I punti di forza del Made in Italy sono diventati, com’è noto, la meccanica, il sistema
moda e, ultimamente, l’agroalimentare. Molto poco per un paese che a fine degli
anni 1960 vantava quella che un tempo si chiamava una “matrice industriale
completa”, vale a dire produceva un po’ di tutto, dal nucleare
all’elettromeccanica, dal chiodo al microchip, dal farmaco alle scarpe.
Purtroppo l’industria di Stato che
concentrava molte di queste competenze è stata dapprima vittima della spartizione
partitica, che l’ha spogliata delle grandi capacità imprenditoriali maturate
dagli anni 1930 sotto la guida dei grandi commis
d’Etat antifascisti che l’avevano presa in mano (comprese le grandi
banche). E infine svenduta a brandelli al settore privato attraverso le
privatizzazioni. Spesso a capitali stranieri che l’hanno acquisita a saldo dei
debiti esteri che l’Italia ha maturato negli anni dello SME (il sistema
monetario europeo) e poi dell’euro, i due sistemi di cambio fissi a cui il
Paese ha in successione aderito dal 1979 e su cui torneremo. L’eccesso di
conflitto sociale a partire dai primi anni 1960
non ha poi certo favorito una evoluzione positiva della grande impresa
italiana, la quale si è invece ritratta sino quasi a scomparire. Perché la
Ignis, o la Rex-Zanussi non sono diventate una Samsung o, almeno, una Bosch? Perché
tanti brand dei Caroselli di
quand’eravamo bambini (o almeno io lo ero) sono spariti?
Mentre altri Paesi come la Corea del
Sud o Taiwan si incamminavano verso produzioni di massa avanzate, il nostro si
smarriva nel conflitto sociale. Ma vale la pena chiedersi di chi è la
responsabilità di una conflittualità spesso esacerbata. Mentre ulteriore lavoro
storico sarebbe necessario, non si è lontani dalla verità se la si attribuisce
a una borghesia incapace da sempre a venire incontro alle istanze sociali delle
grandi masse popolari. Dai cannoni di Bava Beccaris, al fascismo, alla “stretta
monetaria” e prime minacce golpiste del 1963, alla strategia della tensione,
sino a Berlusconi (e al suo epigono Renzi), e infine con l’euro, la borghesia italiana
ha sempre reagito alla domanda di giustizia negando legittimità alle istanze
sociali, timorosa di perdere i propri privilegi, al massimo corrompendo masse
con il clientelismo diffuso e le elemosine - dai pacchi di pasta di Lauro agli
ottanta euro di Renzi. E’ al principio degli anni 1960 che si compie la scelta
decisiva: il Paese era cresciuto, le premesse economiche per una vera
modernizzazione del Paese c’erano, una borghesia capace di guidarla no. Alla
difesa dei settori nazionali moderni (l’elettronica di Olivetti, il nucleare di
Ippolito, il petrolio di Mattei), e a una riposta in positivo alle istanze di
giustizia sociale del primo ciclo di
lotte operaie, si sostituì la svendita di quei settori al capitale
straniero, la stretta monetaria, e lo sfruttamento selvaggio della forza lavoro,
senza riforme sociali. Il secondo ciclo
di lotte operaie dal 1969 fu la risposta dei lavoratori. Molto si ottenne,
altrettanto lo si sta ora restituendo.
Negli anni 1970 il Paese continuò comunque a crescere, con il conflitto spesso
moderato attraverso l’impiego non sempre appropriato della finanza pubblica e
l’utilizzo del cambio (svalutazione della lira) per compensare la maggiore
inflazione interna. Le istanze progressive delle lotte operaio e studentesche
furono molto, solo molto parzialmente guidate dalla sinistra verso un
riformismo forte, ostacolate in questo dalla borghesia golpista, in un clima
reso più cupo da un estremismo diventato col tempo violento. L’aumento del
prezzo del petrolio, per cui anche i Paesi petroliferi ambirono a una fetta
maggiore della torta, fu un’ulteriore elemento esacerbante del conflitto.
BOX 2 Il
conflitto distributivo fra lavoratori e capitalisti genera inflazione, la
famosa spirale prezzi-salari. I Paesi produttori di petrolio e materie prime
possono costituire il terzo incomodo. Una inflazione interna maggiore dei
concorrenti (per esempio di Germania e Francia) porta a una perdita di
competitività. In termini semplici: i nostri prodotti cominciano a costare più
dei loro. Una svalutazione della
nostra moneta, quando ce l’avevamo, aumentava il potere d’acquisto degli
stranieri: coi marchi un tedesco comprava più beni prezzati in lire. Allora la
svalutazione, accrescendo il potere d’acquisto degli stranieri, compensava
l’aumento dei prezzi in lire dei nostri prodotti. Certo, con una lira
deprezzata, diminuiva il potere d’acquisto di merci estere per i lavoratori
italiani. Ma né questo, né l’inflazione interna erano sufficienti a annullare
l’aumento dei salari reali ottenuto con le lotte.
La svolta avvenne alla fine degli
anni 1970 quando, superato l’apice del terrorismo, il Paese allineò le proprie
politiche alla nuova ventata monetarista che si andava affermando in Europa e
negli Stati Uniti. In questi ultimi, muore con Carter l’ultimo rigurgito
keynesiano. L’adesione al sistema europeo di cambi fissi, lo SME (sistema
monetario europeo), fu il segnale ai sindacati che la politica economica non
avrebbe più accomodato il conflitto sulla distribuzione del reddito attraverso
il tasso di cambio. Il meccanismo è spiegato nel BOX 2: il conflitto salariale
genera inflazione; quest’ultima fa perdere competitività al paese, per la
ragione banale che i prezzi delle merci che produce aumentano più che
all’estero; il deprezzamento del cambio fa recuperare la competitività.
Abilmente, per gran parte degli anni 1970 l’Italia aveva cercato di svalutare
rispetto al marco, preservando la competitività nel mercato tedesco che è il
nostro più importante, mantenendo invece stabile il cambio col dollaro
(avvalendosi del contestuale indebolimento di quest’ultimo nei confronti del
marco), sì da mantenere invariato il prezzo delle importazioni petrolifere
(fatti salvi gli aumenti decisi dai produttori). In tutto questo i dati
mostrano che i salari reali riuscivano a crescere – la deflazione e non
l’inflazione è nemica dei salari. Tanto più che la produttività del lavoro
continuava a crescere, guidata dalla domanda interna ed estera.
BOX 3 “tassi di inflazione relativamente sostenuti
sono spesso associati a tassi di disoccupazione contenuti e quindi a posizioni
di forza dei lavoratori nelle contrattazioni sindacali, a beneficio del
mantenimento della crescita dei salari reali, e della quota dei salari sul
prodotto. Il processo di disinflazione [successivamente] compiuto …ha eroso
(via disoccupazione) le posizioni contrattuali dei lavoratori, favorendo lo
smantellamento dei presidi del loro potere d’acquisto (meccanismi di
indicizzazione del salario) e quindi, inevitabilmente, riducendo la quota dei
salari sul prodotto.” A.Bagnai, Il
tramonto dell’euro, Imprimatur, 2012).
Certo, di meglio si poteva fare: più
giustizia distributiva e fiscale avrebbero potuto moderare il conflitto, ciò
che avrebbe però richiesto una borghesia lungimirante; un più rapido adeguamento
dell’imposizione fiscale e la lotta all’evasione, a fronte di una spesa sociale
che finalmente cominciava ad adeguarsi agli standard europei avrebbe impedito
l’esplodere del debito pubblico, la cui concausa furono gli alti tassi di
interesse conseguenza dello SME. Per chiarire quest’ultimo punto: nel corso
degli anni 1980, con i cambi fissi e
un’inflazione in discesa, ma pur sempre più alta della Germania, il nostro Paese
si trovò con forti disavanzi esteri. Non potendo infatti più svalutare
adeguatamente per compensare la più elevata inflazione, la competitività del
Paese ne soffrì. Questo implicò
indebitamento verso l’estero a tassi di interessi crescenti (gli stranieri investivano
sì in titoli italiani, ma per coprirsi dal rischio di svalutazione della lira
chiedevano tassi assai onerosi). Con l’uscita (temporanea) dallo SME nel 1992,
la svalutazione e la ripresa delle esportazioni consentì al Paese di
riaggiustare i conti esteri e restituire il debito estero.
Dagli anni 1990 la globalizzazione
di capitale e lavoro si fa più massiccia. Questa va intesa come un imponente
movimento del capitalismo verso l’estensione su scala globale dell’esercito industriale di riserva (la
sacca di disoccupati che serve a calmierare i salari, il termine è di Marx). Da
un lato gli impianti si spostano verso paesi dove il costo del lavoro è più
basso, dall’altro i fenomeni migratori
portano all’interno dei paesi industrializzati la concorrenza della
forza-lavoro a basso costo. La pressione su salari e diritti si fa tremenda. Al
contempo il rafforzamento delle grandi istituzioni internazionali come il WTO
(oggi il TTIP) è volto a smantellare i poteri degli Stati sovrani, sì da
depotenziare la linea di difesa dei diritti costituito dalle istituzioni
democratiche nazionali. Il rafforzamento delle istituzioni europee culminato
nella creazione della moneta unica si iscrive in questo quadro.
L’euro è la sanzione della strategia
della deflazione salariale. L’ideologia che guida l’Italia ad aderire alla
moneta unica è quella del “legarsi le mani”, come fu definita da due sciagurati
economisti (Francesco Giavazzi e Marco Pagano): cancellata definitivamente la
possibilità di aggiustare il cambio, l’unica via per mantenere i posto di
lavoro è la deflazione salariale. Naturalmente questo non viene detto
esplicitamente: si dice che l’euro imporrà di effettuare le riforme che il
Paese da lungo attende (leggi la riforma del mercato del lavoro culminata nel Jobs Act).
Il BOX 1 illustrava come, tuttavia,
se tutti i paesi adottano la deflazione competitiva, questo è un gioco a somma
zero, se vince uno perde l’altro e dunque il paese che fa più deflazione
salariale spiazza gli altri in un suicida gioco al ribasso. E il paese più
bravo a farla è stata la Germania che, con le riforme del mercato del lavoro
del socialdemocratico Schroeder, spiazzò tutti nel 2003. Alla deflazione
salariale la Germania affiancò la sua tradizionale forza produttiva sostenuta
da un poderoso apparato statale pro-business (ricerca, ottima formazione a ogni
livello, apparato pubblico e politica estera sostegni delle esportazioni ecc.),
quello che si chiama Stato mercantilista
insomma. Pur con un’inflazione ridotta al lumicino, il nostro Paese si vede di
nuovo spiazzato dal temuto concorrente, ed è allora che il discorso sul declino
italiano si fa più pressante. Oggi la Spagna è portata ad esempio di successo
della deflazione salariale: vedete, si dice, come tempestive riforme del
mercato del lavoro (leggi smantellamento dei diritti sindacali e condizioni di
lavoro massacranti) portano alla ripresa del Pil? Non ci si rende conto che in
Europa questo, alla lunga, non è neppure un gioco a somma zero, in cui almeno
uno vince, ma è un gioco al massacro collettivo: il vincitore si ergerà alla
fine sulle rovine dei concorrenti, e sulle proprie. Non esattamente un
successo.
Qual è l’alternativa? Quella più
ragionevole sarebbe di politiche europee espansive concertate fra i diversi
paesi, con la Germania a fare da traino espandendo il proprio mercato interno
attraverso un cospicuo aumento di salari e spesa pubblica. Dunque l’abbandono
della deflazione salariale innanzitutto da parte del paese leader. Ma ciò non
accadrà. La Germania non abbandonerà mai il proprio modello mercantilista (vendere agli altri e non comprare). Questo
paese costituirebbe comunque un problema anche se l’euro crollasse.
In questo quadro scoraggiante, non
sono in grado di dare suggerimenti ai compagni della Whirlpool su quale
strategia sindacale adottare a livello locale. Sindacati ed enti locali
dovrebbero forse costringere l’azienda ad impegnarsi in politiche
dell’innovazione, in collaborazione per esempio con le università toscane, per
individuare nuovi prodotti di alta gamma, anche puntando sulla formazione del
personale. Ma sono solo idee, come noto, chi sa fa, chi non sa insegna. A
livello nazionale si tratta ovviamente di combattere le politiche di austerità
che sono anch’esse parte della deflazione salariale in quanto mirano ad
abbattere il salario indiretto,
quello consistente di erogazioni sociali (pensioni, sanità, istruzione,
assistenza sociale). Queste politiche hanno distrutto il mercato interno portando a una drammatica perdita di capacità
produttiva. Va inoltre accresciuta la consapevolezza che l’Europa, monetaria e
non, è lo strumento della deflazione salariale (ce lo chiede l’Europa), e poco conta il contentino che ci viene
dato sul terreno dei diritti civili, che funge da specchietto per le allodole.
BOX 4 La
deflazione salariale come strategia del capitalismo nazionale ha l’obiettivo di
catturare i famosi due piccioni con una fava: i bassi salari tengono alti i profitti,
e allo stesso tempo consentono di vendere l’eccedenza del prodotto all’estero.
Così, nonostante i bassi consumi interni dovuti ai bassi salari, non c’è un
problema di mercato. La questione è che se fan tutti così, come s’è visto, la
strategia diventa un gioco al ribasso rovinoso per tutti.
Standing ovation!
RispondiEliminaBellissimo articolo :) grazie
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