giovedì 17 settembre 2015

Teoria e politica economica: chi parla male, pensa male

Ripubblichiamo, con il permesso dell'autore, un vecchio saggio di Fabio Petri che ci sembra tuttavia ancora utile come introduzione all'importanza che una solida base di analisi economica ha per trarre valide conclusioni di politica economica.

Teorie economiche alternative: implicazioni per la politica economica

Fabio Petri

Docente di Economia Politica presso l'Università degli Studi di Siena
26/01/1995
         C'è da chiedersi innanzitutto se problemi come la disoccupazione siano da considerare come mali inevitabili, da addebitare ai lavoratori che si ostinano a pretendere salari troppo alti, o se invece si tratti di qualcosa di curabile attraverso interventi governativi che non rendano necessaria una diminuzione dei salari. Questo è un primo gruppo di questioni per le quali aderire ad una scuola teorica o ad un'altra fa una grande differenza. Mi soffermerò su questa differenza e poi parlerò del problema del debito pubblico che è la questione di cui si più si parla in Italia. Come vedremo, anche in questo caso ci si chiederà: il debito pubblico nel nostro Paese va o no azzerato in tempi brevi, mediante un attivo del bilancio dello Stato -cioè tramite entrate dello Stato superiori alle spese?
         Il punto da cogliere è che gli economisti non sono d'accordo su quale sia la migliore descrizione di come funziona un'economia di mercato, e proprio per questo non sono neppure d'accordo su quale siano le risposte - in termini di scelte di politica economica - da dare alle domande che ci siamo posti.
         Vorrei tentare di individuare la radice di fondo di questo disaccordo tra gli economisti. Tale radice risiede fondamentalmente nelle differenze di impostazione tra le due principali teorie economiche. Una di queste teorie è quella che io chiamo classica e che è quella di Adam Smith , Ricardo , di Marx  - oggi integrata con l'apporto di Keynes  - l'altra è quella che io chiamo marginalista anche se più spesso la si chiama neoclassica - che è quella oggi dominante nel mondo accademico. Il mio intervento seguirà il seguente schema:
         1. Quali sono le linee fondamentali di queste due impostazioni teoriche ed in che cosa differiscono nella struttura teorica.
         2. Cercherò di dimostrare come dalle differenze tra queste due impostazioni, emergano visioni profondamente diverse della natura della società in cui viviamo.
         3. Suggerirò che una di queste due impostazioni, quella marginalista o neoclassica, si sia rivelata scientificamente molto debole e quindi da scartare.
         4. Cercherò di dimostrare che le risposte più appropriate da dare ai problemi che ho indicato - disoccupazione e debito pubblico- sono molto diverse di quelle attualmente accreditate.
        

1. Le linee fondamentali della teoria classica e della teoria marginalista

         Cominciamo dalle differenze tra queste due impostazioni ponendoci questa domanda: come è spiegato nelle due impostazioni il livello medio dei salari? Perché in certi periodi esso aumenta ed in altri diminuisce?
 
         La scuola classica
         Non presupporrò quasi alcuna conoscenza da parte vostra di economia, immagino però che tutti abbiate sentito parlare di Adam Smith  - filosofo e professore universitario della fine del Settecento in Scozia - e di David Ricardo  - figlio di una famiglia ebrea  londinese, diventato miliardario speculando sui cambi, il quale si ritirò a vita privata e si occupò di economia politica per passione e che fu anche parlamentare. La teoria di David Ricardo  venne a mio avviso travisata e infine abbandonata, con la quasi sola eccezione di Karl Marx , che la riprese nella seconda metà dell'Ottocento, quando già il pensiero dominante si muoveva in un'altra direzione. Questa teoria fu poi mantenuta in vita quasi esclusivamente da economisti marxisti, i quali, per ragioni ideologiche, in pochi  trovarono spazio nelle università. Solo in tempi recenti la si è ripresa, dopo l'impulso dato dalla rinascita del radicalismo negli anni sessanta, ed anche ad opera di un notevolissimo economista italiano che studiò a Cambridge, Piero Sraffa .
         Ebbene in Smith , in Ricardo , in Marx , troviamo sostanzialmente la stessa idea su che cosa determini il livello dei salari. Si tratta di quella che Marx  avrebbe chiamato lotta di classe, ma l'idea non è propriamente sua, la troviamo già in Adam Smith : ossia, per Marx , ciò che determina il livello medio dei salari è il rapporto di forza tra la classe dei capitalisti e la classe dei lavoratori, che è in genere nettamente favorevole ai primi tranne che nei periodi di scarsità di manodopera, dovuti alle epidemie che decimavano i lavoratori, o generati da momenti di rapida crescita economica. Ma al di fuori di tali contingenze i capitalisti sono sufficientemente forti  da mantenere il salario molto vicino ai livelli più bassi. Adam Smith  lo definisce come il livello "compatibile con il comune sentimento di umanità". Questa idea del comune sentimento di umanità è un'idea interessante, su cui torneremo.
         In genere,  nella cultura comune della sinistra - in tutto il mondo - si pensa che questi siano concetti elaborati da Marx , mentre in realtà Marx  non faceva che riprendere, approfondire e dire in termini più chiari quanto già era stato detto prima di lui. Con la differenza che Marx  disse queste cose in un'epoca in cui il conflitto tra operai e capitalisti era ormai diventato aperto. Adam Smith , alla fine del settecento, quasi un secolo prima di Marx  si esprime in modo chiarissimo:
         "Quale sia il salario ordinario, dipende ovunque da un contratto normalmente stipulato tra lavoratori salariati e datori di lavoro, i cui interessi non sono affatto gli stessi. I primi sono disposti a intese al fine di fare aumentare i salari, i secondi al fine di farli abbassare. I lavoratori desiderano ottenere il più possibile, i datori di lavoro dare il meno possibile. In ogni caso non è difficile prevedere quale delle due parti sia normalmente avvantaggiata nella disputa, e sia quindi in grado di imporre all'altra parte i propri termini contrattuali. I datori di lavoro, essendo in minor numero possono accordarsi più facilmente; la legge - era palesemente così all'epoca di Smith  - agevola o non ostacola il perseguimento dei loro interessi, mentre ciò non accade per i lavoratori. Ma soprattutto, in questo conflitto, i datori di lavoro possono resistere molto più a lungo. Un proprietario, un industriale, un mercante, potrebbe  generalmente vivere anche per un anno o due senza impiegare alcun lavoratore, consumando il capitale accumulato. Al contrario, senza impiego molti lavoratori non potrebbero resistere neppure una settimana, pochi resisterebbero per un mese, quasi nessuno per un anno".
         Nella descrizione di Smith  i datori di lavoro sono sempre e ovunque una "casta" caratterizzata  da "una tacita, ma costante, uniforme intesa a non aumentare i salari al di sopra del loro saggio corrente. Violare questa intesa, ovunque è un'azione  assai impopolare", che solleva critiche da parte degli altri imprenditori. Ai datori di lavoro si oppongono, nella coalizione contraria, i  lavoratori. "I loro interessi abituali sono talvolta l'alto prezzo dei viveri, talvolta i grandi profitti che i datori ottengono dal loro lavoro".  I lavoratori descritti da Smith  nel cercare un intesa migliore fanno sempre molto chiasso. "Per raggiungere una decisione sollecita essi ricorrono a metodi sempre più spregiudicati e talvolta alla violenza e all'oltraggio. Essi sono disperati e agiscono con la sconsideratezza dei disperati destinati o a morire di fame, o a spaventare i loro datori di lavoro affinché soddisfino immediatamente le loro richieste. In queste occasioni però, i datori di  lavoro, dal canto loro, non sono meno chiassosi e non cessano di domandare ad alta voce l'assistenza della magistratura e l'applicazione rigorosa di quelle leggi che sono state promulgate con grande severità contro le coalizioni dei servitori lavoranti giornalieri. Per cui assai raramente i lavoratori traggono vantaggio dalla violenza di queste tumultuose coalizioni che, per l'intervento della magistratura, o per la maggior fermezza dei datori di lavoro, o ancora per la necessità della maggioranza dei lavoratori di sottomettersi per non perdere la loro fonte di sussistenza, generalmente finiscono con la punizione o la rovina dei loro capi".
         Si capisce allora come venisse spontaneo a qualsiasi lucido osservatore dell'epoca, ammettere che i salari erano determinati da quella che Marx  da un lato e Smith  - che non era certo un socialista né tanto meno un comunista rivoluzionario - dall'altro, avrebbero chiamato lotta di classe. Tale lotta di classe era ovviamente determinata  dalla disoccupazione, dalla fermezza dell'appoggio dello Stato ai datori di lavoro e, soprattutto, dal livello dei consumi, quale ormai era considerato indispensabile dalla consuetudine, come compatibile con il comune sentimento di umanità.
         La situazione era molto simile a quella dei servi della gleba nel feudalesimo, quando i signori feudali riuscivano a ottenere un reddito positivo, ottenuto dai versamenti da parte dei servi della gleba, dal prodotto sui loro campi, o dalle corvée che i servi effettuavano sui campi del signore. La domanda che bisogna porsi è: perché i servi della gleba accettavano di rinunciare a una parte di ciò che avrebbero dovuto avere di diritto? La risposta è semplice: perché i signori feudali erano l'anello forte della catena sociale, era loro il controllo delle terre. Essi avevano i soldati per far rispettare il loro controllo sulle terre, perciò potevano imporre ai servi della gleba di lavorare e a questi ultimi non rimaneva, evidentemente, altra scelta se non cedere, per non morire di fame. Questo spiega perché vennero promulgate leggi che vietavano di fuggire nelle città da un lato, e dall'altro l'indebolimento del sistema feudale in seguito allo sviluppo delle città. Ma finché i signori mantennero ben saldo il monopolio della possibilità di lavorare, essi poterono pretendere parte del prodotto dai servi della gleba, o parte del loro tempo di lavoro.
         Nel fare un'analisi della storia del feudalesimo, si è anche descritto un ciclo che potremmo definire politico, in cui i signori feudali aumentano sempre più le loro pretese, le loro esazioni, chiedono corvée sempre più lunghe, elevano le gabelle su ponti e strade, fino a quando i contadini, esasperati, esplodono. Per lo più le rivolte vengono facilmente soffocate nel sangue, ma qualche volta i servi della gleba riescono a muoversi tutti insieme, a marciare verso il castello e ad incendiarlo. A questo punto gli altri signori si precipitano con le loro soldataglie dal feudatario in difficoltà e per evitare che l'episodio si ripeta fanno molte concessioni ai servi della gleba, la cui situazione migliora. Così si esaurisce il ciclo, che si riapre quando i signori ricominciano ad aumentare le esazioni, fino al successivo scoppio di ira popolare.
         La situazione nel regime capitalistico è, secondo Adamo Smith , Ricardo  e Marx , molto simile. C'è un monopolio collettivo, detenuto dai capitalisti, sulla possibilità di lavorare, poiché lavorare richiede il capitale che i proletari non hanno, né esso gli viene anticipato dalle banche, in quanto nullatenenti. I capitalisti allora offrono la possibilità di lavorare, a patto che parte del prodotto resti a loro come profitto.
         Si capisce come in una  situazione del genere ci sia una profonda indeterminatezza di quale debba essere il livello del salario: i capitalisti vogliono abbassarlo il più possibile, i lavoratori alzarlo il più possibile. Ma in ogni dato momento c'è una storia passata che ha formato delle consuetudini. In tutte le situazioni di indeterminatezza, è normale partire dalle consuetudini. Esse permettono infatti di regolare la vita senza che ogni giorno si debba ristabilire tutto da capo. Quando poi da una delle due parti ci si accorge che i rapporti di forza sono cambiati, si cerca di sostituire le vigenti consuetudini, spingendo in un'altra direzione. E' assai difficile, tuttavia, modificare le consuetudini, in quanto esse hanno un potere di pressione fortissimo sui comportamenti sociali, anche nella società odierna. I barboni, ad esempio, vivono con pochissimo, sono compagnie sgradevoli per la gente comune, perché vivono in un modo molto diverso dal nostro, perché il tipo di vita che fanno è notevolmente deteriorato. Sono persone la cui vita è ormai incompatibile con quella normale degli altri. Per questo la pressione sociale - affinché la gente non dia fastidio agli altri e sia adattabile ai modelli di vita dominanti - è un deterrente fortissimo. Tale pressione sociale impone, con una forza impressionante, un livello minimo di consumi, al di sotto del quale nessuno è disposto ad andare. Proviamo a immaginare, per assurdo, che arrivi una classe di invasori e imponga a tutti lo stile di vita dei barboni: accadrebbe che la stragrande maggioranza della popolazione non sarebbe disposta ad abbassare fino a quella soglia il proprio stile di vita. Se per un barbone infatti il suo stato è il punto di arrivo di un lento processo di degradazione, per la gente normale un brusco abbassamento del tenore di vita è semplicemente insopportabile. C'è un livello di consumi  al di  sotto del quale non vale la pena vivere, e per difendere il quale anzi vale la pena mettere a repentaglio la propria vita.
 
         La scuola marginalista
         Quella fin qui esposta è l'idea degli economisti classici. Confrontiamola adesso con l'altra, quella che abbiamo chiamato marginalista. La visione è completamente diversa: l'idea è che ci siano una domanda  e un'offerta di lavoro [la domanda è quella espressa dalle imprese che richiedono manodopera e l'offerta è quella dei lavoratori, che offrono la propria forza lavoro, N.d.R.] e che la domanda di lavoro aumenti se i salari si abbassano. Allora a determinare i salari sarà il gioco della domanda e dell'offerta, ed infatti quando c'è disoccupazione,  se i lavoratori non sono sciocchi, accetteranno che in una tale contingenza i salari si abbassino: il risultato sarà che la domanda di lavoro da parte delle imprese aumenterà.
         Ora, l'idea comune della concorrenza è: quando l'offerta di un bene è maggiore della domanda, il prezzo si abbasserà, perché se chi offre non riesce a vendere, pur di non restare con la merce invenduta accetterà di piazzare il suo prodotto ad un prezzo più' basso. La teoria marginalista,  a questo proposito, sostiene che se anche  i lavoratori accettassero di comportarsi in modo concorrenziale, accettando quindi la caduta dei salari, finché permane la disoccupazione - questo significa offerta di lavoro maggiore della domanda - è necessario che il salario si abbassi ancora, cosicché la domanda di lavoro da parte delle imprese possa aumentare e si arrivi, per questa via, alla piena occupazione. Il livello a cui sarà sceso il salario è il livello a cui le forze di mercato tendono a spingere i salari. Ed è questo che spiega il livello dei salari: perché esso aumenta? Perché diminuisce? Quando diminuisce il livello dei salari? Semplicemente quando aumenta l'offerta di lavoro. La crescente offerta di lavoro da parte delle donne, ad esempio, fa ovviamente abbassare il livello del salario, diversamente le imprese non avrebbero incentivi a impiegare questa nuova forza lavoro. Questa è la teoria dominante, quella che appare, a prima vista, la più plausibile.
         Cerchiamo di capire quale struttura teorica sorregge questa teoria. Si potrebbe, infatti, ragionare in tutt'altro modo: supponiamo che ci sia  disoccupazione e che i lavoratori accettino di farsi concorrenza e i salari si abbassino. Ma quando i salari si abbassano, quelli che già lavoravano hanno meno soldi di prima, quindi comprano meno beni e la domanda di beni che le imprese vendono diminuisce. Esse vendono meno e cominciano a licenziare. Perciò se i salari si abbassano non aumenta l'occupazione, ma al contrario diminuisce. Allora quale di questi due ragionamenti è quello più solido?
         Cerchiamo di capire perché, quando il salario si abbassa, le imprese hanno convenienza a impiegare più lavoratori. Per i sostenitori dell'idea marginalista o neoclassica, la produzione non deriva solo dal lavoro, ma anche dal capitale. Le imprese hanno infatti una certa quantità di capitale, e quando con questa quantità di capitale vogliono impiegare più lavoratori, ogni nuovo lavoratore impiegato fa aumentare la produzione, ma questo aumento è gradualmente sempre minore per ogni lavoratore in più: e questo perché con un dato impianto, con dati beni capitali, i lavoratori aggiuntisi permetteranno di produrre cose via via meno utili (in una data falegnameria con uno stabilimento di cento metri quadri, se comincio ad aumentare i lavoratori impiegati, il prodotto cresce, ma per ogni lavoratore in più diminuisce lo spazio a disposizione; ad un certo punto, aumentando ancora i lavoratori, nessuno potrà più lavorare!).
         Quale sarà allora il ragionamento dell'impresa quando dovrà decidere quanti lavoratori domandare? Confronterà quanto prodotto in più le verrebbe  dall'impiegare un nuovo lavoratore, con il costo che l'assunzione di quest'ultimo comporta. Supponiamo che il centunesimo lavoratore permetta all'impresa di produrre beni in più, e che tali beni in più le diano un ricavo in più, dalla vendita, di un milione e mezzo al mese. Il lavoratore costa - supponiamo - un milione e duecentomila lire al mese: se l'impresa decide di assumerlo avrà un milione e mezzo di ricavo, un milione e due di costo, e trecentomila lire  le resteranno come profitto. Fatti questi calcoli il lavoratore viene assunto. Stesso ragionamento verrà fatto per i successivi possibili lavoratori che permetteranno ulteriori aumenti di prodotto (via via sempre minori). Di conseguenza i ricavi in più saranno anch'essi via via minori.
         Per cui l'impresa continuerà ad assumere fintanto che il ricavo ottenibile dalla maggiore produzione ottenuta con nuovi lavoratori sarà superiore al costo per ogni lavoratore in più. Questo meccanismo spiega il perché sia diffusa l'idea che l'occupazione dipenda dal livello dei salari, ma ricordiamo che stiamo ipotizzando un capitale dato, cioè degli impianti dati.
         Se invece il capitale impiegato aumenta, questo comporterà un aumento del prodotto ed allora, probabilmente, anche gli ulteriori lavoratori contribuiranno alla produzione in misura maggiore; a parità dei salari vi sarà maggiore domanda di lavoratori da parte dell'impresa e, qualora si fosse già in una situazione di piena occupazione, il salario tenderà a salire. Quindi se aumenta l'offerta di lavoro il salario si abbassa, mentre se aumenta il capitale impiegato il salario tende ad innalzarsi.
         Attenzione: non si è ancora confutato l'altro modo di ragionare cui avevamo accennato, in base al quale se i salari scendono i lavoratori comprano meno beni, quindi le imprese venderanno meno e saranno costrette a licenziare (per cui scendendo i salari l'occupazione diminuisce!).
         Questo modo di ragionare è confutato, dai marginalisti nel modo seguente.
         Il ragionamento che io ho fatto per il lavoro si può fare in modo esattamente simmetrico per il capitale. Un impresa, in un dato momento, avrà sia una certa quantità di capiate impiegato, che una certa quantità di lavoro impiegato. Dunque l'impresa si può porre lo stesso problema che abbiamo posto per i lavoratori anche per la quantità di capitale da domandare: conviene impiegare più capitale? L'impresa farà esattamente lo stesso tipo di ragionamento: se impiegasse un'unità in più di capitale - diciamo un milione in più - per impiegare ulteriori macchinari ecc., di quanto aumenterebbe il prodotto e quindi il ricavo? Per calcolare in modo corretto bisogna tener conto, però, anche del fatto che l'impresa dovrebbe  indebitarsi per poter investire, quindi dovrebbe pagare un interesse. Si dovrà dunque confrontare il ricavo in più con il costo lordo del capitale (perché l'impresa dovrà restituire sia il milione di capitale ottenuto a prestito che l'interesse). Ma pur con questa piccola complicazione il ragionamento sarà esattamente lo stesso che nel caso dei lavoratori.
         Si metterà a confronto il costo in più di ogni unità aggiuntiva di capitale con il ricavo in più, e se quest'ultimo è superiore al costo in più, allora conviene prendere a prestito quell'unità in più di capitale. Ed anche qui l'idea è: dato l'impiego di lavoro, quanto più capitale impiego tanto più aumenta il prodotto, ma via via di meno. Quindi ci sarà un momento in cui il costo in più e il ricavo in più si pareggiano e lì l'impresa si ferma. Ma se è così, non può mai esserci problema a vendere tutto ciò che si produce: infatti una parte di ciò che si produce verrà domandato dai consumatori ed una parte dalle imprese, che la acquisteranno come investimento. Ma quando le imprese fanno investimenti in realtà stanno ampliando il loro capitale, e allora ciò vuol dire che stanno decidendo di impiegare più capitale. Come abbiamo visto le imprese decidono di impiegare più capitale quando il saggio di interesse - che è il prezzo che devono pagare per il capitale - si abbassa. In altre parole il saggio di interesse è il prezzo che regola domanda e offerta di capitale: basta che il saggio d'interesse sia determinato dalla concorrenza, per far sì che le sue variazioni portino a far coincidere l'offerta di beni capitali delle imprese  con la domanda.
         Risulterà quindi che il salario, sulla base della concorrenza, riesce a portare alla piena occupazione il mercato del lavoro, ed il saggio di interesse, sulla stessa base, riesce a garantire che tutti i beni non comprati dai consumatori vengano comprati dalle imprese. Per questo, se nel breve periodo può verificarsi che all'abbassarsi dei salari i lavoratori comprino meno e quindi le imprese vendano meno, semplicemente saranno le imprese a comprare di più sulla base della diminuzione del saggio d'interesse. In ogni caso, essendosi abbassato il salario, le imprese impiegano ulteriori lavoratori, aumentano la produzione, e l'aumento della produzione in parte verrà comprato dai lavoratori di nuova assunzione, mentre la differenza di nuovo dalle imprese, purché si abbassi a sufficienza il saggio di interesse. Insomma se i mercati concorrenziali vengono lasciati funzionare bene, non c'è mai problema a vendere tutto quanto prodotto. E questa è la teoria dominante nel mondo accademico.
         Le implicazioni importanti di questa teoria sono due: la prima è che se lasciamo funzionare beni i mercati, questi porteranno alla piena occupazione - per cui la disoccupazione che si osserva nella realtà è fondamentalmente causata dai lavoratori ed in particolare dai sindacati, che bloccano il meccanismo di mercato non lasciando abbassare il salario. Per questo le imprese domandano solo il numero di lavoratori che rende il costo del lavoro uguale a quel prodotto in più che gli economisti chiamano prodotto marginale del lavoro. E poiché il potere dei sindacati deriva da un riconoscimento del loro ruolo da parte dei lavoratori, sono questi ultimi, in sintesi, i responsabili della disoccupazione. La seconda conseguenza importante di questa visione riguarda la remunerazione che va al lavoro come salario e la remunerazione che va al capitale come interessi: esse corrispondono in realtà, in un senso molto profondo, ad un ideale di giustizia.
         Infatti pensiamo ad un qualsiasi lavoratore: poiché come abbiamo visto, le imprese domandano lavoro fino al punto in cui il ricavo in più è uguale al costo in più, ciò vuol dire che il salario di questo qualsiasi lavoratore è proprio uguale al prodotto in più che l'impresa perderebbe se lo licenziasse. Quando l'impresa decide di impiegare quel lavoratore, confronta il ricavo in più col costo in più. Allora se l'impresa licenziasse il lavoratore essa perderebbe un ricavo in più proprio pari al salario. Quindi ciò vuol dire che il valore del salario è uguale al valore dei beni in più prodotti da quel lavoratore. Quando reputiamo equo ciò che noi paghiamo a qualcuno? Quando in qualche modo quello che noi paghiamo a qualcuno corrisponde a ciò che questo qualcuno ha contribuito a darci. Mettiamoci dal punto di vista della società: come facciamo a misurare il contributo alla società di ciascun singolo lavoratore? Il contributo che ciascun lavoratore dà alla società è esattamente ciò che la società perderebbe se questo lavoratore decidesse di non lavorare più, e cioè proprio quel prodotto in più attribuibile all'ultimo lavoratore. E quanto riceve il lavoratore come salario? Il valore  di quel prodotto in più. Tanto dà e tanto riceve. C'è una corrispondenza perfetta tra contributo alla società e paga al lavoro.
         Ora, si può dimostrare - e ci arrivate già intuitivamente sulla base del ragionamento fatto prima - che lo stesso deve valere anche per il capitale. Abbiamo detto che le imprese decidono anche quanto capitale impiegare con lo stesso ragionamento; e impiegano capitale fino al punto in cui il ricavo in più dell'ultima unità di capitale è pari al costo in più. Ma ciò significa che anche il saggio d'interesse riflette proprio il contributo di ciascuna unità di capitale, cioè anche l'interesse risponde a giustizia. Voi potreste dire: "un attimo, il  lavoratore fatica, soffre per lavorare, mentre chi dà il capitale che sofferenza subisce?" E invece c'è la risposta anche qui: la sofferenza è la rinuncia al consumo. Da dove deriva il capitale? Esso viene dal risparmio, e quando qualcuno risparmia, rinuncia a consumare, è una sofferenza anche quella. Allora c'è un sacrificio dietro il capitale, il sacrificio corrisponde al risparmio, cioè alla rinuncia al piacere di consumare quei soldi. Questo sacrificio permette di risparmiare e il risparmio crea capitale. Quindi c'è un sacrificio dietro ogni unità di capitale. Ed il contributo alla società di questo sacrificio è il contributo corrispondente all'aumento di produzione reso possibile da quell'ulteriore unità di capitale. Se qualcuno decidesse di non risparmiare, la società perderebbe qualcosa. Perderebbe proprio quella produzione in più resa possibile da quell'unità in più di capitale, resa possibile da quel risparmio.
         In conclusione, quindi, dietro il salario c'è un sacrificio e quel sacrificio viene remunerato in base al contributo che esso fornisce alla società. Allo stesso modo, dietro l'interesse c'è un sacrificio, e anche quel sacrificio viene remunerato in base al contributo che esso fornisce alla società.
         Diciamo la verità: è bello, c'è un'armonia, c'è un'eleganza, una simmetria affascinante in questa teoria. Si può capire perché essa abbia avuto un notevole successo in ambito accademico, ed essa, tra l'altro, sembra basarsi su cose che paiono corrispondere alla realtà. Sembra corrispondere alla realtà il fatto che se in un'impresa con un dato capitale impieghiamo sempre più lavoratori, ad un certo punto i lavoratori in più faranno sì aumentare il prodotto, ma via via di meno, perché diventano via via meno utili. Ad un certo punto addirittura saranno superflui, non si saprà più che farne del millesimo lavoratore in una piccola falegnameria.
 

2. Le differenze: due diverse visioni della società

         Chiarito dunque questo fatto, chiarita quindi la profonda simmetria che in questa visione c'è tra redditi da lavoro e redditi da capitale, chiarita la giustizia che il mercato realizza nel determinare le retribuzioni del lavoro e del capitale, e chiarita l'efficienza di tutto ciò - perché, ricordate, si va alla piena occupazione, purché si lasci funzionare la concorrenza - vediamo allora, brevemente, di sottolineare le differenze rispetto all'altra impostazione, quella classica.
         L'impostazione classica vede le cose - soprattutto per via del posteriore contributo di Keynes  - proprio nel modo che vi dicevo: se si abbassano i salari, l'effetto sarà che i lavoratori acquisteranno di meno, cioè le imprese venderanno meno e quindi ci saranno licenziamenti.
         La giustizia della retribuzione
         Ma vediamo innanzitutto l'aspetto della giustizia della retribuzione. Se  si vedono le cose alla maniera dei classici - ricordatevi quella analogia che vi ho fatto con il feudalesimo - parlare di profitti delle imprese - che è il linguaggio usato poi da Marx  - oppure parlare di interessi sul capitale, fondamentalmente è la stessa cosa: sono redditi che derivano dalla proprietà del capitale. Spesso l'imprenditore è egli stesso il proprietario del capitale, quindi i profitti li percepisce senza nemmeno ripagarli con interessi, ma in realtà se avesse prestato a qualcun altro il capitale avrebbe preteso un interesse, quindi quello che guadagna come profitti anche in quel caso va suddiviso tra compenso per il rischio e interessi. Quindi parlare di interessi o profitti è equivalente.
         Nella visione classica, la misura di ciò che va agli interessi o ai profitti, deriva dal semplice fatto che i capitalisti hanno il coltello dalla parte del manico. Essi dicono ai lavoratori: un salario talmente alto che vi consenta di appropriarvi di tutto il prodotto, senza che nulla resti a noi come interesse e profitti, semplicemente non lo permetteremo mai; per farvi lavorare con il nostro capitale - e ce l'abbiamo noi il capitale - vogliamo profitti o interessi. E quindi la situazione è analoga a quella dei signori feudali con i servi della gleba; ma se - come credo tutti - accettereste che il reddito dei signori feudali sia in realtà analogo al pizzo della mafia (che va dal commerciante e dice: io ho le pistole, o mi dai queste 400mila lire al mese o ti spariamo), allora è estremamente legittimo dire che il reddito del signore feudale sia un'estorsione, uno sfruttamento. E poiché la situazione per i profitti è del tutto analoga, i profitti sono sfruttamento. Adam Smith  non usa questa parola - che userà Marx  - ma in realtà abbiamo visto, dai passi di cui vi ho detto, che il concetto è lo stesso anche per Smith : tutto è necessario per poter fare sfruttamento.
         La disoccupazione
         Altra differenza interessante: un marginalista direbbe che se c'è disoccupazione la colpa è dei lavoratori che non lasciano abbassare i salari. Un classico che cosa direbbe? Direbbe: "è semplicemente umano e normale che i lavoratori resistano agli abbassamenti salariali", perché nella impostazione classica - ed è qui in realtà la differenza di fondo - questa idea che quando il prezzo del lavoro si abbassa, le imprese ne domandano di più, o che se il prezzo del capitale si abbassa le imprese ne domandano in più, quindi l'idea che noi ci potremmo costruire una curva decrescente di domanda per i fattori produttivi, in cui tanto più basso è il prezzo del fattore produttivo, tanto maggiore sarà la domanda, questa idea nei classici non c'è proprio. Se i salari si abbassano, il risultato immediato, per i classici, è semplicemente che si alzano i profitti: va di meno ai lavoratori e va di più ai capitalisti. Gli effetti sull'occupazione il più delle volte sono negativi; possono essere positivi solo se i capitalisti decidono di investire di più. Ma come dirà l'analisi economica successiva, a partire da questo importante economista, Keynes , in realtà le imprese non investono solo perché stanno facendo profitti. Le imprese investono quando pensano di usare bene i loro profitti  nel costruire ulteriori impianti, quando cioè si aspettano di riuscire a vendere di più. Perché le imprese investano di più è necessario cioè che la domanda di beni stia già crescendo, per cui le imprese si aspettano di riuscire a vendere ancora di più. Quindi il risultato più probabile è l'altro, proprio quello che l'abbassamento del salario faccia abbassare la produzione, faciliti le crisi economiche.
         Allora, dicevo, in una situazione di questo tipo, in cui non c'è nessun meccanismo di domanda e offerta che possa spontaneamente determinare un salario, in cui se il salario si abbassa o si innalza semplicemente è questione continua di lotta di classe, è del tutto naturale che i lavoratori si rifiutino di abbassare il salario.
         Del resto provate a metterla così: se un abbassamento di salario non fa aumentare l'occupazione, quale sarà l'esperienza storica dei lavoratori? Anche quelle rare volte che i disoccupati, per disperazione o altro, dicono: purtroppo sto morendo di fame, vado alla fabbrica e mi offro alla metà del salario dei già impiegati, che cosa succederà? Succederà che i già occupati, per evitare il licenziamento, accetteranno essi stessi di farsi pagare solo la metà. Nella visione marginalista il risultato di questo abbassamento dei salari sarà l'aumento della domanda di lavoro. Avranno lavoro sia quelli che già erano occupati che i disoccupati. Nella visione classica invece gli occupati restano occupati ad un salario inferiore - se non vengono addirittura licenziati per l'abbassamento della domanda di beni, dovuto alla diminuzione di reddito dei lavoratori - e i disoccupati restano disoccupati. L'unica cosa che è successa è che ci hanno perso tutti. Ci hanno perso anche i disoccupati, che sono in genere mantenuti, almeno in parte, dai redditi dei loro parenti occupati.
         Questa esperienza storica insegna molto rapidamente ai lavoratori che farsi concorrenza in questo modo - in cui i disoccupati si offrono ad un salario più basso - è un disastro. L'unico risultato è che tutti i salari si abbassano e l'occupazione non aumenta. E quindi è del tutto ovvio che si formi quello che la storia insegna - cioè che si formino dei sentimenti di assoluta proibizione morale per la concorrenza salariale. E in effetti questa cosa è talmente forte, che praticamente non ci si pensa nemmeno. A chi di voi viene in mente, se non ha trovato lavoro, di andare ad offrirsi ad un salario inferiore a quello normale? Quando vi chiedono: avete bisogno di lavoro? Ovviamente vi offrite al salario normale, al salario abituale. Perché non ci si offre a meno? Io sostengo che non lo si fa perché l'esperienza storica ha insegnato che ciò non serve. Ed a questo punto è diventata parte integrante della cultura operaia l'idea che sia qualcosa che, semplicemente, non si fa.
         E questo è confermato dal fatto che in quei casi in cui è legittimo pensare che abbassare i salari serva a difendere l'occupazione, allora i lavoratori lo accettano. Infatti, quando per esempio c'è una fabbrica in pericolo di chiusura, e si riesce a mostrare ai lavoratori che l'unico modo per salvarla è abbassare i salari, allora i lavoratori lo accettano (spesso accettano di formare una cooperativa, e rilevare loro la fabbrica, benché sappiano che siccome la fabbrica non stava andando bene, questo significherà che per mesi, o forse per anni, dovranno accettare un salario più basso di quello di mercato).
         La crescita economica
         Altra differenza estremamente importante: la crescita economica, da che cosa dipende? Secondo l'impostazione marginalista, abbiamo visto, si riesce sempre a vendere tutto ciò che si produce - ovviamente sto mettendola in termini un po' rigidi, per qualche anno ci sarà magari qualche difficoltà, i processi di aggiustamento del mercato non sono istantanei, ma in media se si lascia funzionare bene il mercato, si riuscirà a vendere tutto - e allora ciò che non viene venduto per consumi verrà venduto alle imprese. Ciò significherà investimenti. Ma ciò che non viene venduto per consumi che cos'è? Pensiamolo dal punto di vista dei redditi. Ciò che viene prodotto dalle imprese ha un valore e costituisce reddito. Allora, evidentemente, solo una parte di questo reddito viene impiegato e speso a comprare beni di consumo. Tutto il resto viene risparmiato. Quindi quella parte del valore della produzione che non corrisponde ai consumi, corrisponde al risparmio. Abbiamo detto che il risparmio è quella cosa che crea capitale. Infatti che voi lo vediate come soldi non spesi, o come beni prodotti e non consumati, ma che vanno alle imprese, che cosa vedete? Vedete questo risparmio monetario, che va ad incrementare il valore monetario del capitale - e a questo corrispondono proprio beni prodotti e non consumati, che però vanno alle imprese che aumentano il valore dei beni fisici utilizzati come capitale. Quindi il risparmio crea capitale e quanto più si risparmia, tanto più capitale si crea. E' il capitale in più che determina la crescita economica. Conclusione: la crescita è determinata dai risparmi. Se vogliamo crescere di più bisogna risparmiare di più.
         Nell'altra visione, quella classica, invece, la crescita è determinata dalle decisioni delle imprese di investire, che dipendono da tutt'altre cose - per esempio dall'aspettativa che si possa vendere di più in futuro. E molto spesso queste decisioni di investire sono insufficienti a mantenere la piena occupazione del lavoro. E' il caso di oggi in Italia: avrete letto che nell'ultimo hanno [1994, N.d.R.] sono stati 400 o 500mila i posti di lavoro persi. Mentre per i classici lo Stato deve intervenire attivamente per favorire la crescita economica e favorire l'occupazione, perché il mercato di per sé non garantisce affatto che si arrivi alla piena occupazione - questa curva di domanda decrescente di lavoro non c'è, come pure non c'è una curva di domanda decrescente del capitale - per i marginalisti, invece, il mercato mette tutto a posto da solo. E da ciò ovviamente derivano le posizioni di tipo liberale, liberista ecc. espresse da Berlusconi  o da Bossi  - per i quali non ci sono punti di disaccordo sostanziale nelle linee di politica economica.
         La politica economica
         Veniamo alle differenze tra le due impostazioni riguardo alla politica economica.
         Per risolvere il problema della disoccupazione, secondo i marginalisti bisogna spezzare le reni ai sindacati - quello che esplicitamente disse di voler fare la Tatcher  quando subentrò al governo in Inghilterra. Non per cattiveria, ma semplicemente in ossequio alle leggi del mercato. Se vogliamo aumentare l'occupazione bisogna che i salari scendano, facendo funzionare la concorrenza. Invece un classico, che abbia imparato la lezione di Keynes , direbbe che lo Stato deve intervenire attivamente stimolando la domanda. Se non si stimola la domanda le imprese non decideranno di produrre di più e quindi di assumere più lavoratori.
         Sulla crescita economica, l'implicazione di politica economica della teoria marginalista è: per crescere di più bisogna risparmiare di più, cioè consumare di meno. Per questo è importante diminuire il deficit dello Stato, perché lo stato i soldi li usa per consumi. Noi non siamo abituati a vedere questa attività dello Stato come consumi, però lo sono. I soldi dello Stato vanno in sanità, stipendi dei dipendenti pubblici, pensioni: non sono investimenti. Questi soldi che lo Stato spende in deficit li ottiene da un prestito: si indebita. Ma i soldi che i titolari dei titoli di Stato prestano allo Stato, sono risparmi sottratti all'investimento presso le imprese, che permetterebbero l'acquisto di beni capitali. Lo Stato, dunque, col deficit aumenta i consumi e diminuisce i risparmi e quindi gli investimenti. Rallenta quindi la formazione di nuovo capitale, la crescita economica. Invece, nell'altra prospettiva, quella classica, se lo Stato spende fa bene, perché aumenta la domanda, inducendo le imprese a produrre di più. Le imprese che producono, se osservano che stanno producendo molto, decidono di ampliare l'impianto. Più lo Stato spende e più gli investimenti sono stimolati. Le due visioni non potrebbero essere più diverse.
 

3. La solidità scientifica delle due teorie economiche

         E allora visto tutto questo, voi capite l'importanza del decidere, sul piano scientifico, quale di queste due visioni sia più solida. Ora, ovviamente, ci vorrebbe un intero corso di laurea - e in molte facoltà neppure ci si arriva - per spiegare bene, fino in fondo, in tutti i dettagli, gli aspetti negativi e positivi di queste due visioni.
         Tuttavia voglio almeno accennarvi al fatto che l'economista italiano di cui vi dicevo, Sraffa , ha mostrato sì che gli autori classici non avevano risolto alcuni problemi teorici - in particolare la famosa teoria del valore-lavoro di Marx  non funzionava bene - ma che si trattava di problemi risolvibili all'interno della loro stessa teoria. Marx  aveva incontrato un problema nello spiegare la determinazione dei prezzi relativi delle merci, e sosteneva che essi fossero determinati dal lavoro da esse incorporato e questo non è vero. Ma la sua idea di fondo era che ci debba essere un qualche modo per spiegare i prezzi relativi, una volta che noi prendiamo il salario come dato e determinato dalla lotta di classe. E' quello che Sraffa  dimostra: su questo Marx  aveva perfettamente ragione. Si può costruire un sistema matematico che mostra - dato il salario determinato dalla lotta di classe - come sia la concorrenza tra i capitalisti (i quali tendono a far sì che il rendimento del capitale diventi uguale tendenzialmente in tutte le industrie) a determinare i prezzi delle merci. Quindi è vero che Marx , e prima di lui Ricardo  ecc., non erano riusciti a risolvere bene questa questione, ma essa non mette in crisi la loro teoria. Essa resta logicamente forte.
         La teoria marginalista, invece, incontra gravissimi problemi. Li possiamo qui solo accennare. Per spiegare che gli abbassamenti dei salari determinino un aumento della domanda di lavoro da parte delle imprese, si è dovuto ragionare ipotizzando che sia data la quantità dei fattori produttivi diversi dal lavoro, cioè capitale e terra (per dire che il contributo alla produzione di ogni lavoratore aggiuntivo era via via minore, infatti, si è fatto l'esempio di un dato impianto - una falegnameria in cui più aumentano i lavoratori e più aumenta il prodotto, ma solo finché non comincia a mancare fisicamente lo spazio ecc.). Data una certa quantità di questi altri fattori, capitale e terra, se impieghiamo via via più lavoratori, questi lavoratori faranno cose via via meno utili. La teoria marginalista, dunque, per essere forte, ha bisogno di argomentare che sia legittimo ipotizzare come data la quantità di capitale. Ma questo, si dimostrerà, non è legittimo.
         Infatti è possibile considerare come data la quantità di capitale in due sensi:
1) si considera come data la quantità dei singoli beni capitali;
2) si considera come dato il valore complessivo di tutti i beni capitali;
         Il primo modo di considerare come data la quantità di capitale, considerando come data la quantità dei singoli beni capitali (si prende come data la quantità di viti, trattori, vanghe, vernici, benzina, torni ecc.) esistenti nell'economia, non funziona. Infatti, non appena le imprese impiegano più lavoratori, un'enorme numero di queste quantità si modificherà. Se l'impresa vuole produrre di più ha bisogno di più pezzi intermedi per ottenere i prodotti finali. Quindi quei beni capitali che sono pezzi intermedi del processo produttivo dovranno essere acquistati anticipando soldi, cioè sarà necessario prendere a prestito capitale. Qui i beni intermedi cambiano.
         Inoltre, quando il salario si abbassa, tutti i prezzi cambiano, perché i salari entrano nei costi di produzione in modo diverso a seconda delle merci. Per i prodotti chimici, ad esempio - dato che si tratta di prodotti con enormi macchinari e pochissimo lavoro - se il salario scende il costo di produzione quasi non cambia. Invece per prodotti ottenuti con molto lavoro manuale, come i jeans, quando il salario si abbassa il costo di produzione scenderà molto. Quindi cambieranno i prezzi dei beni e di conseguenza cambierà la domanda di questi beni. Cambiando la domanda di questi beni, cambieranno anche i beni capitali impiegati e necessari per produrli. Se i jeans si abbassano di prezzo la gente comprerà più jeans, le imprese acquisteranno più macchinari per fare più jeans. Quindi dieci giorni dopo che si è abbassato il salario sarà aumentata la domanda di jeans e le imprese ordineranno più macchinari per fare jeans, e le fabbriche che producono questi macchinari ne fabbricheranno di più.
         Ovviamente se si comprano più jeans si comprerà meno qualcos'altro, ad esempio meno prodotti chimici che non sono diminuiti di prezzo. Allora le imprese chimiche domanderanno meno beni capitali del tipo necessario a produrre prodotti chimici. In ogni caso le quantità dei singoli beni capitali non resteranno invariate all'abbassarsi del salario, e di conseguenza non è possibile considerare il capitale come dato in questo senso.
         Allora forse si deve considerare la quantità di capitale come data nel secondo modo, cioè come valore complessivo di tutti i beni capitali. Questo lascerebbe effettivamente il capitale libero di cambiare di composizione - più macchine per fare jeans e meno macchine per fare prodotti chimici - senza che cambi il valore complessivo. Ed in effetti è questo il modo in cui, tradizionalmente, gli economisti di scuola marginalista parlano di una "data quantità di capitale" nella determinazione della domanda di lavoro. Ma, sfortunatamente per i marginalisti, la misura del capitale come valore di un complesso di beni - che sta anche cambiando - si modifica al modificarsi dei prezzi dei beni stessi. Abbiamo appena detto che quando i salari cambiano, anche i prezzi cambiano. Il risultato sarebbe dunque che il valore del capitale dipende dai salari, e cambia quando cambiano i salari.
         Dunque non è possibile considerare come data la quantità di capitale, il che permetteva di costruire quella curva della domanda di lavoro che assieme all'offerta doveva determinare il salario. In questa teoria, infatti, finché non è determinato il salario non sappiamo il valore del capitale, finché non sappiamo il valore del capitale non conosciamo la domanda di lavoro, e quindi non sappiamo quale possa essere il salario di equilibrio: la teoria crolla.
         In effetti, per motivi connessi a questi problemi teorici, la teoria marginalista negli ultimi anni è andata sviluppandosi in direzioni molto particolari, nel tentativo di fare a meno di questa nozione di capitale misurato come quantità di valore, della quale - come abbiamo visto - si riesce a dimostrare in due minuti l'insostenibilità. Dunque i marginalisti hanno tentato altre strade, che per brevità non vi posso illustrare. Si tratta delle cosiddette "Teorie moderne dell'equilibrio economico generale". Ciò che vi posso dire è che un numero crescente di teorici dell'equilibrio economico generale ammettono che si stanno cacciando in un vicolo cieco, diventano sempre più scettici sulla loro stessa teoria. In effetti ho la netta impressione che ormai la teoria marginalista, che è ancora quella dominante a livello accademico, a livello dei consulenti di governo ecc., sia un gigante dai piedi d'argilla. Questa teoria resta ancora accettata soprattutto dagli economisti applicati, i quali per via della necessaria divisione del lavoro in ambito scientifico, hanno imparato questa teoria qualche decennio fa per poi mettersi ad applicarla, per fare studi applicati, senza più tenersi al corrente dei successivi dibattiti sulla solidità delle fondamenta di questa impostazione. Ed i successivi dibattiti, invece, stanno minando alla base questa teoria, in modo secondo me ormai totale.
         In conclusione la teoria logicamente e scientificamente più solida è quella classica.
 

4. Le risposte ai problemi del debito pubblico e della disoccupazione

         E su questa base veniamo a quei due problemi cui si accennava all'inizio, cioè la disoccupazione ed il debito pubblico ed al modo in cui affrontarli. Sul debito pubblico in realtà ve l'ho già anticipato. Per i marginalisti il debito pubblico crea dei problemi di instabilità finanziaria - perché ci sono tutti questi titoli che possono essere venduti e non rinnovati ed i risparmi portati all'estero - ma il problema veramente grave non è questo. Infatti si sa che l'instabilità finanziaria, se c'è un governo che vuole davvero intervenire in modo duro, è fermabile (certamente, comunque, il governo deve sormontare la resistenza della comunità finanziaria, che ha forti interessi nel poter avere perfetta libertà di movimento dei capitali perché in questo modo fa più soldi; ma un governo deciso a fermare l'instabilità finanziaria, di fatto ci riesce). Il vero problema che i marginalisti pongono, per sostenere che il debito pubblico va eliminato, è quello che vi dicevo prima: il debito pubblico fa sì che lo Stato si faccia prestare e usi per fini non di investimento, risparmi che altrimenti andrebbero ad aumentare gli investimenti. E così facendo diminuisce la crescita, col risultato che quando saremo anziani, e con noi  i nostri figli, ci troveremo con molto meno capitale di quello che altrimenti ci sarebbe. E quindi c'è, in questo senso, un onere del debito pubblico sulle generazioni future.
         Quest'onere non è dovuto alla semplice esistenza del debito pubblico - si tratta infatti di un debito degli italiani verso se stessi. Non si tratta di un vero debito perché non si tratta di un debito della nazione verso altri, bensì di un debito della nazione verso se stessa. Esso certo crea problemi redistributivi perché è molto difficile politicamente tassare solo quei cittadini che hanno prestato denaro allo Stato. Ma per la nazione nel suo complesso il debito pubblico non esiste. La nazione non è indebitata. Chi usa l'argomento della semplice esistenza del debito pubblico come fonte di problemi è ignorante o in malafede. Ed infatti il vero problema, che è poi quello che pongono gli economisti marginalisti seri, è che con il debito pubblico stiamo diminuendo l'accumulazione del capitale.
         Invece nell'impostazione classica, proprio perché il debito pubblico non è un debito verso altri, esso non è un vero debito. E' vero che esso crea problemi di instabilità finanziaria, ma questi problemi, con sufficiente volontà possono essere risolti. Il tentativo di diminuire il debito pubblico, una volta che c'è, crea disastri. Infatti per diminuire il debito pubblico bisogna aumentare le imposte o diminuire la spese. Se lo Stato diminuisce le spese esso induce una contrazione della domanda. Se invece lo Stato aumenta le imposte diminuisce il reddito delle persone e quindi, di nuovo, diminuisce la domanda. Il risultato sarà che lo Stato non riuscirà nemmeno a ridurre il debito pubblico, perché se diminuisce le spese diminuiscono anche le entrate (perché le imprese produrranno meno, guadagneranno meno e pagheranno meno come tasse). Lo Stato, quindi, nel cercare di aumentare le entrate le fa in realtà diminuire e fa aumentare soltanto la disoccupazione.
         Abbiamo detto che per lo Stato l'instabilità finanziaria esiste solo finché esso non voglia schierarsi contro gli interessi della comunità finanziaria. Inoltre basta ricordare che in Inghilterra il debito pubblico è stato il doppio del prodotto nazionale per decenni, nell'ottocento. Allo Stato, invece, conviene, almeno temporaneamente, aumentare il debito pubblico, aumentando le spese. Questo farà aumentare i consumi, stimolerà le imprese a produrre di più ed ad investire . E allora forse si riuscirà perfino a ridurre il debito grazie all'aumento delle entrate. Certo, resta vero che se lo Stato finanzia le sue spese in deficit, ci saranno meno risparmi che si convogliano verso le imprese. Ma il punto da capire è questo: lo Stato, in questo modo, prende risparmi da un reddito più grande, perché è un reddito che è lo Stato stesso a stimolare, quindi lo Stato raccoglie dei risparmi che senza le sue spese, senza il suo stimolo sulla domanda, non sarebbero nemmeno esistiti. Quindi se lo Stato segue queste linee, raccoglie sì dei risparmi, ma ne restano ugualmente per l'industria ed in misura superiore che se lo Stato non si fosse indebitato.
         Per quanto riguarda, invece, l'occupazione, lo Stato deve in un modo o nell'altro stimolare la domanda, addirittura aumentando i consumi (attraverso eventualmente aumenti dei salari). Questo certo crea problemi, perché aumentando i salari si ridurranno i profitti e la concorrenza internazionale può portare alla fuoriuscita di capitali. Non si possono dunque aumentare molto i salari, ma qualcosa si può fare. Quella stessa cosa che diminuisce l'instabilità finanziaria connessa ai titoli del debito pubblico - cioè controlli sull'apparato finanziario ed in particolare sui movimenti di capitale - può, se non impedire, almeno rendere un po' più costoso esportare capitali all'estero. Questo diminuirebbe l'instabilità finanziaria, farebbe ridurre il tasso d'interesse interno che è necessario pagare ai capitalisti e quindi permettere di aumentare i salari, diminuendo nel contempo le spese dello Stato per gli interessi sul debito pubblico.
         Ovviamente le cose non sono mai così facili. C'è - e questo lo ammette anche l'economista classico - un problema grave, che riguarda il vincolo esterno. Se il governo fosse un governo di sinistra, con economisti classici a fare da consulenti, le politiche di espansione della domanda potrebbero far crescere in modo più forte le importazioni delle esportazioni, i possessori di capitali si spaventerebbero temendo una svalutazione, esporterebbero capitali, ci sarebbe la svalutazione, essa porterebbe nel tempo ad inflazione ecc.
         Questo problema del vincolo estero è sormontabile? Innanzitutto bisogna dire che se tutti i governi seguissero queste linee di espansione della domanda per favorire l'occupazione, il problema non esisterebbe. Tutti i paesi aumenterebbero le loro importazioni e cioè tutti aumenterebbero le esportazioni. Se tutte le nazioni decidessero di occuparsi del problema della disoccupazione, non ci sarebbe vincolo estero.
         Questo ovviamente non succede, sia perché domina la teoria e la visione marginalista, sia per il cinismo del capitalista "marxista", il quale pur privo di fiducia nelle teorie della scuola marginalista, trova conveniente che le sue proposte siano attuate: non credo che Agnelli  abbia bisogno di cedere nelle tesi marginaliste per capire che se si abbassano i salari per lui c'è una convenienza. In ogni caso sono ragioni politiche ad impedire l'attuazione di queste politiche espansive. In altre parole non si tratta di ragioni connesse al naturale funzionamento dei meccanismi di una economia di mercato. E per ragioni politiche si deve intendere che c'è un gruppo, molto forte e compatto, soprattutto negli ambienti finanziari, che sostanzialmente dice "A noi queste politiche non convengono".
         Tuttavia, supposto che le altre nazioni non siano favorevoli a queste politiche per l'occupazione, il governo di una singola nazione potrebbe riuscire a portarle avanti con successo? In effetti, a mio avviso, delle vie le si potrebbe trovare. Innanzitutto un singolo Stato potrebbe accettare, per un certo periodo, di indebitarsi, concentrando la sua espansione soprattutto sugli investimenti, i quali potrebbero portare un tale ammodernamento da rendere questo Stato molto competitivo - il che permetterebbe poi di esportare molto (è ciò che in qualche misura hanno fatto le tigri asiatiche, la Corea, Hong Kong, Singapore ecc.).
         Ma supponiamo che sia necessario aumentare le esportazioni più rapidamente di quanto non avverrebbe grazie agli investimenti (che hanno bisogno di tempo per fruttare) e che per farlo si debbano ridurre i costi delle imprese. Ma i costi delle imprese non sono costituiti solo dai salari! C'è anche il costo del denaro! Si potrebbe dunque ridurre il tasso d'interesse. Certo, sappiamo che c'è gente che si oppone a queste riduzioni, e non si tratta certo dei piccoli risparmiatori. Ai piccoli risparmiatori sarebbe facile spiegare che quel che perdono da una parte in termini di interessi sui titoli di Stato, lo guadagnano dall'altra in termini di minori spese sanitarie, maggiore occupazione per i propri figli ecc. A queste condizioni i piccoli risparmiatori non sarebbero contrari all'abbassamento dei tassi d'interesse. Chi è veramente contrario a queste riduzioni è chi possiede miliardi in titoli di Stato, e cioè non soltanto i vari Agnelli  ecc., ma proprio le banche. Quelle banche che prima erano tutte pubbliche e che ora lo Stato sta privatizzando, diventando dunque qualcosa che lo Stato non può più controllare. Non ci sono affatto solide ragioni per sostenere le privatizzazioni, ed infatti all'estero, spesso, le imprese nazionalizzate funzionano benissimo. La Renault è nazionalizzata, la Wolkswagen lo era fino a poco tempo fa. Con una semplice particolarità: semplicemente i manager lavoravano.
         Anche in Italia, del resto, molte imprese pubbliche erano in perdita perché dovevano fare prezzi bassi alle imprese private a cui vendevano beni capitali. Altre sono in perdita perché erano già in perdita quando lo Stato le ha comprate dai privati. E moltissime imprese private, invece, hanno fatto la fine che hanno fatto.
         In conclusione pongo un’ultima questione. La promessa di Berlusconi  di un milione di posti di lavoro non è insensata a priori. Sarebbe in qualche modo possibile, in un tempo relativamente breve, una creazione di lavoro così forte, ma ci vorrebbe la forza e la volontà di intaccare una serie di interessi economici e di privilegi, soprattutto legati agli ambienti finanziari - che sono quelli che obbligano l'Italia ad avere perfetta libertà di movimento dei capitali, il che rende estremamente difficile qualunque politica espansiva (infatti non appena l'Italia volesse espandere la produzione, avrebbe più importazioni che esportazioni e si verificherebbe il caso cui si accennava sopra: i possessori si spaventerebbero, comincerebbero a esportare capitali per timore di una svalutazione, questo porterebbe effettivamente alla svalutazione, essa protraendosi porterebbe inflazione ecc.).
         Ma un governo che fosse deciso e che capisse che il mondo non funziona come dicono i marginalisti, ma piuttosto come dicono i classico-keynesiani, potrebbe effettivamente creare, in tempi ragionevolmente brevi, il famoso milione di posti di lavoro.

1 commento:

  1. Come sempre contributi fondamentali per studiare e capire l'economia e soprattutto i fatti economici che ogni giorno accadono attono a noi. GRAZIE. Fla.

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