mercoledì 3 aprile 2013

Recensione al libro di Alberto Bagnai



 Recensione al libro di Alberto Bagnai, il manifesto, 3 Aprile 2013.

Quel salto mortale nel buio in nome di un'unica moneta
Sergio Cesaratto
Nel 1983 il manifesto bucò la notizia della morte di Piero Sraffa, rimediando poi maldestramente con un obituario di Federico Caffè che Sraffa, francamente, non comprendeva molto. Questo non fu un caso. I rapporti del giornale con l’economia critica sono, infatti, sempre stati tiepidi. Gli economisti critici tollerati, più che ricercati. A tutt’oggi le preferenze del giornale vanno più nella direzione della scuola di Caffè o di economisti “light” (“quelli che gli F35..”). Caffè era un valoroso compagno di strada del movimento operaio, ma non precisamente organico alla teoria critica dell’economia politica che pure dovrebbe essere cara alla tradizione intellettuale del giornale. Per Caffè la buona fede degli economisti di qualsiasi persuasione era fuori discussione, mentre per gli economisti “light” c’è sempre un’economia reale sana a cui si contrappone una finanza malvagia. Il lavoro analitico di distinzione fra teoria dominante e teoria critica è guardato con fastidio. Ambedue le visioni sono facilmente criticabili. Tutto questo dovrebbe essere analizzato nell’ambito del tormentato rapporto che la tradizione comunista italiana ha con l’economia politica, tradizione stretta fra il liberismo Amendoliano e la poetica Ingraiana. Sottolineata la distanza di Caffè dalla critica dell’economia politica, non ne va però sottaciuto il suo sforzo di riempire di riformismo pragmatico il vuoto che c’è nel mezzo. Non sappiamo cosa Caffè avrebbe oggi suggerito al Paese a fronte di un’Europa che lo sta trascinando nel baratro. Sui limiti della costruzione europea, sulle tentazioni egemoni della Germania, e sulla necessità di salvaguardare gli interessi dei lavoratori del nostro Paese si veda, tuttavia, il bel saggio di Mario Tiberi “Federico Caffè e l’Unione europea” (scaricabile dai motori di ricerca).
Nell’autunno 2012 il manifesto ha bucato il libro di Alberto Bagnai, Il tramonto dell’euro (Imprimatur editore 414 pp, 17€).
Bagnai non è propriamente per storia e formazione un economista critico, ma neppure Keynes (si parva licet) lo era strettamente. E Bagnai è un genuino economista Keynesiano (con qualche piccolo inciampo). Il che significa avere nel cuore: (a) che è la domanda aggregata a determinare il livelli di produzione, nel breve come nel lungo periodo, e (b) che il sostegno alla domanda aggregata per un singolo paese si scontra col vincolo estero, ovvero con la necessità di finanziare un volume crescente di importazioni attraverso un corrispondente aumento delle esportazioni. La crescita implica dunque una espansione coordinata fra i diversi paesi che può svolgersi nel quadro di diversi sistemi monetari internazionali, purché ben congeniati, e l’euro non lo è. Bagnai non ha dubbi che la scelta dell’Italia di aderirvi sia stata sciagurata. Questa adesione e non una imprecisata finanza perversa è alla base della crisi europea (la finanza malvagia può spiegare Cipro, ma non il resto). Che la finanza sia da porre sotto controllo questo Bagnai non nega, ma che ciò sia sufficiente per uscire dalla crisi è una facile ricetta che egli lascia agli economisti “light” (“quelli che la Tobin tax…”). L’analisi dei movimenti di capitale dai paesi europei “core” verso quelli periferici, in linea con altre accreditate analisi della crisi (come quella dell’argentino Roberto Frenkel e, si parva licet, la mia) è invero centrale nell’analisi di Bagnai. Tali flussi hanno consentito uno sviluppo effimero in Spagna, Irlanda e Grecia sostenendo il modello mercantilista tedesco basato su compressione del mercato interno ed esportazioni. Lo scoppio delle bolle immobiliari nella periferia ha generato la crisi. L’economia italiana era già sofferente dalla continua erosione di competitività – i nostri sforzi di ridurre l’inflazione ai livelli target europei sono stati vanificati dal gioco sporco della Germania che li ha tenuti ancor più bassi. La gestione maldestra della crisi da parte delle autorità europee e l’austerità supinamente somministrataci dal governo Monti (e che ora Bersani paga cara) ci hanno ora collocato su un sentiero che dir rovinoso è un eufemismo.
Da genuino keynesiano, l’analisi di Bagnai è impietosa contro i luoghi comuni e il moralismo mal riposto che imperversa nella sinistra italiana a proposito, soprattutto, di debito pubblico ed Europa. Ne sappiamo qualcosa anche noi sin da quando all’inizio della crisi nel predisporre un documento per alcune associazioni denunciammo che in Europa c’era uno scontro fra interessi nazionali. Ci sentimmo tacciare di leso-Europeismo da ben noti collaboratori di questo giornale. Questi, pur non abbandonando le elegie del “più Europa”, come le chiama Bagnai, azzardano ora timide denunce del comportamento tedesco. A differenza di costoro, Bagnai non ha molte speranze in una qualche redenzione dell’Europa, ed ha ragione. Qui il punto è delicato. Dirlo apertamente vuol dire troncare quasi ogni interlocuzione politica a sinistra, anche perché una uscita dall’euro è nel novero delle cose che non si dicono ma si fanno. Ma è pur un bene che se ne parli, e in maniera documentata. Bagnai chiarisce che la rottura dell’euro non sarebbe quel “salto nel buio” che il “luogocomunista” di turno attribuiva su queste colonne (12/3/13) agli economisti di sinistra.
Il volume di Bagnai è ben scritto, documentato, di facile leggibilità e spesso godibile. Come nel caso della lunga citazione del discorso di Napolitano alla camera del 1979 contro l’adesione allo sistema monetario europeo, che è nei fatti una perorazione contro l’euro (suggerita probabilmente da Spaventa che, come spesso gli è accaduto, ha poi cambiato bandiera seguito a quanto pare dal Presidente). Encomiabile è l’assenza di anglicismi (Bagnai parla peraltro molte lingue) che invece flagellano, per esempio, il recente “Piano del lavoro” della CGIL  - in cui il tema europea non è affrontato, peraltro, in termini adeguati. Il volume è assai consigliabile per uso didattico all’università, ma anche per lavori di gruppo negli ultimi anni del liceo. Il mio unico appunto riguarda una scivolata anti-keynesiana in cui Bagnai talvolta incorre nel ritenere che i risparmi abbiano una esistenza autonoma rispetto agli investimenti, potendo essere eccessivi rispetto a questi. Per esempio dove sostiene che “E’ l’eccesso di risparmio globale che ha contribuito all’abbassamento del costo del denaro in tutto il mondo”. Questa è precisamente la tesi neoclassica di Bernanke della “congestione da risparmi”, criticata dagli economisti più genuinamente keynesiani i quali le hanno contrapposto la tesi della “congestione di liquidità” creata, peraltro, dal medesimo Presidente della Fed. Bagnai mi ha però detto che si tratta di una concessione al modo di pensare tradizionale a scopo didattico, e che rivedrà il punto in una seconda edizione.
Il volume di Bagnai è una ottima cronistoria degli errori del passato che, dallo SME al “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro, ci hanno condotto alla Caporetto della moneta unica. I Cadorna sono i presunti eroi della sinistra, Ciampi, Andreatta, Prodi e Padoa-Schioppa. Senza un ripensamento critico di questo passato, riteniamo, essa non potrà maturare ricette efficaci per far uscire il paese da un destino che, al momento, appare, questo sì, buio. Il libro continua dunque a essere quanto mai attuale e una bussola nella presente fase di incertezza politica.

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