venerdì 25 ottobre 2019

Bye bye Draghi. Articolo su Il Fatto


 Ecco la versione originale del pezzo richiestomi da Il Fatto e pubblicato (26 ottobre 2019) accanto a un articolo di Francesco Saraceno. Buona lettura

Ha fatto "whatever it takes (or he could)"

Mario Draghi sarà ricordato come un grande banchiere centrale. Certo, qualche macchiolina ce l’ha, come quando nel 2012 affermò che “il modello sociale europeo è andato”, o nella troppa accondiscendenza, sua e della Christine Lagarde che dirigeva il FMI, ai falchi nord-europei nella trattativa col governo Tsipras nel 2015. Ma certamente con la sua presidenza, dal novembre 2011, con la crisi europea al suo apice, l’azione della BCE si fece più determinata.
La sua prima mossa fu di mettere a disposizione delle banche più di mille miliardi di euro di liquidità. Quelle italiane e spagnole ricorsero a questi fondi per sostenere i titoli di Stato dei propri Paesi da cui gli investitori esteri stavano fuggendo. Ma questo non bastò a frenare la “crisi degli spread” e nel luglio 2012 Draghi minacciò il “big bazooka”, l’intervento diretto della BCE a sostegno dei titoli pubblici dei Paesi sotto attacco.  Ma, salvato l’euro, nel 2013 si affacciò lo spettro della deflazione. Draghi fu ben consapevole che la politica monetaria da sola era impotente. Il cavallo non beve: la liquidità creata non si trasforma un credito e spesa poiché famiglie e imprese sono in crisi, e lo Stato rimane l’unico soggetto che può rilanciare la domanda. Già in un importante discorso nel settembre 2014 Draghi sottolineò la necessità che alla politica monetaria si affiancasse la politica fiscale in quanto i “rischi di fare troppo poco dunque che la disoccupazione diventi da ciclica a strutturale oltrepassano quelli di fare troppo cioè quelli di un’eccessiva pressione verso l’alto su salari e prezzi”. Denunciò l’assenza della politica fiscale europea, mentre negli Stati Uniti e in Giappone la politica monetaria “ha potuto agire ed ha agito come sostegno al finanziamento dei governi”, ponendo quei governi al riparo dalla “perdita di fiducia che ha invece ridotto l’accesso ai mercati finanziari a molti governi dell’euro area”. Questa perorazione rimase inascoltata. Col Quantitative Easing, l’acquisto dal marzo 2015 di titoli pubblici (e non solo), Draghi cercò comunque di sostenere il consolidamento fiscale dei Paesi a più alto debito, ottenendo anche che la liquidità creata si rivolgesse ad investimenti finanziari extra-europei facendo svalutare l’euro sì da sostenere le esportazioni. Ma Draghi sa che questa non è questa la strada maestra. Quando lo scorso settembre annunciò un nuovo mini-QE, la reazione di Trump fu immediata: reagiremo a una svalutazione competitiva innalzando i dazi. In vista della scadenza del suo mandato Draghi è diventato dunque più “vocale” nel rivendicare la necessità di una politica fiscale attiva, assecondata da una politica monetaria al suo servizio. La temuta (dai tedeschi) fiscal dominance.

In conferenza stampa ieri Draghi si è tolto molti sassolini dalla scarpa con affermazioni che suonano come una denuncia della politica economica europea (parole che avremmo voluto sentire in questi anni dagli esponenti del centro-sinistra italiano). Draghi ha così richiamato “i governi che hanno spazio di manovra di bilancio” (leggi Berlino) ad “agire in modo efficace e tempestivo”, il solo modo per uscire dalla politica di tassi di interesse negativi di cui si lamentano poiché nuocerebbe a banche e risparmiatori. Ha ricordato poi che un’unione monetaria completa richiede “una capacità di bilancio centrale” che svolga una funzione anti-ciclica, oltre a una assicurativa nel caso di shock che colpiscano solo alcuni Paesi membri. Qual è la probabilità che venga ascoltato? La Lagarde che gli succederà è certamente sensibile a questi argomenti, come lo è il governo francese. Ma sappiamo come quest’ultimo si sia sempre arreso di fronte all’opposizione tedesca. La Corte Costituzionale tedesca ha da anni sancito il principio che ogni spesa che coinvolga il contribuente tedesco debba passare per il Bundestag, e più recentemente gli economisti tedeschi hanno ribadito la loro opposizione a politiche di “deficit spending”. L’élite di quel Paese ha pervicacemente in mente un modello basato sulle esportazioni, la vacca sacra della politica tedesca, come fu definito già negli anni ’50. Ad esso ogni tedesco si inchina, sino al punto di accettare il G5 Huawei, coi connessi problemi di sicurezza, pur di non disturbare l’acquirente cinese. Il futuro europeo è piuttosto fosco.

Sergio Cesaratto insegna Politica monetaria europea all’Università di Siena. Le vicende di Draghi sono narrate nel suo libro Sei lezioni di economia fra pochi giorni in libreria per l’editore DIARKOS.

https://www.diarkos.it/index.php?r=catalog%2Fview&id=47

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