domenica 21 giugno 2020

Sulla riapertura degli atenei


 Da Micromega on line.
Apertura atenei: adelante con juicio
di Sergio Cesaratto
Studenti e docenti sono ancora nell’incertezza circa la riapertura degli Atenei il prossimo settembre, e soprattutto circa “quale riapertura”. Se studenti e docenti risultano totalmente esclusi dalle decisioni, essi non appaiono peraltro unanimi nel merito. Gli atenei, a loro volta, sembrano procedere in ordine sparso, in ossequio al modello delle autonomie disordinate che pare prevalere nel Paese.
Una lettera di docenti e studenti all’inizio di giugno ha chiesto ad alta voce la riapertura degli atenei, senza se e senza ma. L’argomento fondamentale è che appare assurdo tenere chiuse le università quando spiagge, stadi e discoteche stanno allegramente venendo riaperti. Un docente dell’Università di Torino ha definito questo ragionamento “francamente indegno di docenti universitari” (Il Fatto, 15 giugno).[1] 

 Assente è infatti qualunque accenno alle problematiche sanitarie della riapertura tout court degli atenei come di altre attività sociali. Compito dei docenti universitari sembrerebbe piuttosto quello di allertare la società sui pericoli di aperture frettolose e di suggerire criteri di sicurezza in merito, non di accodarsi ai gestori delle discoteche! In aggiunta il documento condannava senza appello la didattica online, rivendicando un’immagine dell’università un po’ da Scuola di Atene, incompatibile con la didattica a distanza. Quello che si può dire è che la didattica online non ha affatto dato cattiva prova di sé. Il ministro dell’Università Gaetano Manfredi riferisce al riguardo un’ampia soddisfazione degli studenti.[2] Questo non toglie che vivere la propria esperienza universitaria senza condividere con gli altri studenti piaceri e difficoltà dello studio combinando solidarietà ed emulazione, è una menomazione drammatica di un’esperienza unica. Le matricole, peraltro, arriveranno a settembre dopo aver perso quell’altra esperienza unica che è l’ultimo anno di scuola, col rischio di costituire una generazione smarrita, specie per chi è più fragile per famiglia d’origine e personalità.
Nell’incertezza circa l’andamento dell’epidemia e della mobilità a cui gli studenti saranno disponibili, il ministro si è fondamentalmente espresso per forme di insegnamento miste, allo stesso tempo in presenza e online (definite da qualcuno con l’orribile termine di blended), nell’auspicio di un ritorno allo status quo ante nel febbraio 2021. Un quadro di ciò che gli atenei stanno facendo non è disponibile. Sembra che alcuni atenei siano più orientati verso la prevalenza della modalità online (non in presenza), limitandosi ad aperture limitate e selettive; altri per un’apertura totale con didattica mista. La prima scelta a me appare quella più opportuna.
La scelta di tenere tutti i corsi in didattica mista (lezione in presenza con trasmissione online) sta infatti comportando negli atenei che l’hanno scelta un notevole sforzo organizzativo e significativi oneri finanziari. Questi sono dovuti alla necessità di attrezzare le aule con i necessari dispositivi per l’online; escogitare macchinose turnazioni di studenti per evitare l’affollamento; dotarsi di improbabili dispositivi e modalità di sanificazione. Tutto questo costa tempo e risorse, e potrà alla prova dei fatti rivelarsi scarsamente efficiente se non caotico. Il modello misto applicato all’insieme dei corsi non dà dunque garanzie di sicurezza sanitaria; può rivelarsi non funzionale creando confusione; mentre il mix di online e presenza può rivelarsi né carne né pesce dal punto di vista didattico - fare lezione “in presenza” inchiodati a guardare un computer è surreale. Da ultimo può rivelarsi inutile di fronte a una seconda ondata epidemica a cui si arriverebbe impreparati e senza una didattica online a distanza ben organizzata. Poiché l’ondata si manifesterebbe quando i buoi sono già scappati, il costo umano di questa scelta può essere disastroso (ciò che è successo a febbraio e marzo, quando le rare Cassandre non furono ascoltate, lo insegna).
E qui apro una parentesi. L’età media della docenza italiana è molto elevata, i docenti lavorano sino a 70 anni, e spesso continuano a insegnare su base volontaria anche dopo. I rischi che loro incorrono sono molto elevati e logica vorrebbe che se si liberalizza, soprattutto a vantaggio dei più giovani, lo si faccia proteggendo i più anziani.[3]  Il paradosso è che da un lato i docenti verrebbero esposti a rischi elevati in aule e corridoi universitari in cui, non ci si illuda, protezione sanitaria e distanziamento sociale saranno illusori; dall’altro verrebbero loro attribuite responsabilità della sicurezza in aula, incluso regolare l’accesso e di deflusso. Pensare di svolgere queste funzioni in condizioni di sicurezza farebbe sorridere se non fosse tragico. E non si dica che gli studenti frequentanti saranno pochi: allora perché si fa tutto questo?
Allora non aprire? No, la modalità da adottare è quello dell’apertura selezionata, come qualche ateneo intelligentemente sembra voler fare, in modo da ridurre i flussi e i rischi connessi per studenti, docenti, personale tecnico-amministrativo, e concentrando le risorse finanziarie ed organizzative. Apertura selezionata sulla base di quali criteri? Certamente riaprire i laboratori, vitali per la continuazione della ricerca in settori essenziali; permettere le attività di ricerca dei dottorandi e dei laureandi nelle biblioteche e laboratori; si potrebbero attivare in modalità mista i corsi del primo anno della triennale (per salvaguardare una generazione già penalizzata, come s’è detto); nelle facoltà scientifiche, meno numerose, ci si potrebbe forse spingere più in là, aprendo corsi oltre quelli di primo anno, specialmente dove c’è attività di laboratorio. La selezione dei docenti in presenza dovrebbe tener conto di ragioni di età, patologie, residenza, ed eventualmente delle scelte individuali. Il resto della didattica potrà essere svolta online, gli studenti sono sufficientemente maturi per rispondere positivamente. La partecipazione in presenza agli organi collegiali potrebbe essere lasciata alle scelte individuali continuando a prevedere, in particolare per le fasce a rischio, la possibilità del collegamento da remoto (ricordiamo che ci sono anche rischi connessi al tragitto casa-lavoro, a meno di trasformare l’apertura in uno spot pro-automobile privata).
Vi sarebbero risparmi di spesa, maggiore efficienza e forme più ordinate di organizzazione. In caso di aggravamento della situazione il ritorno all’online risulterebbe più semplice, mentre se le cose andassero auspicabilmente meglio, da febbraio si tornerebbe alla normalità senza il rammarico di essere incorsi in spese e costi organizzativi rilevanti. L’online andrebbe certamente rafforzato con un impegno dei docenti a creare piccole comunità di corso, integrando le lezioni con webinar su temi di interesse di studentesse e studenti e fornendo un sostegno didattico assiduo.
 Purtroppo questa vicenda vede l’interferenza di altri elementi, in particolare la concorrenza fra le università nell’attrarre studenti da fuori provincia e gli interessi delle città, specie medio-piccole, che ospitano gli atenei dai quali dipendono flussi di reddito essenziali – preoccupazioni che hanno una loro legittimità, ma su cui si deve essere prudenti. Linee guida nazionali potrebbero scongiurare forme deleterie di concorrenza. Nessuno desidera chiudere l’università. Essa apra tuttavia in maniera selettiva e controllata quale esempio di organizzazione, prudenza e lungimiranza per il resto della società italiana. Poi c’è chi riterrà che queste parole di cautela siano pilotate dal disegno di un Grande Fratello volto a trasformare l’università in una macchina commerciale di conoscenze online. Non credo a queste teorie, ma esse sono riferibili in ogni caso ad ambedue i modelli di riapertura dei quali, però, uno è più costoso, caotico, autoritario e rischioso.



[2] https://www.corriere.it/sette/politica/20_giugno_12/ministro-dell-universita-manfredi-tutti-aula-febbraio-84f7548a-acb6-11ea-b5f6-e69744c83472.shtml

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