martedì 1 novembre 2016

Fabio Petri su "Rottamare Maastricht"



Fabio Petri, Recensione (intervento alla presentazione) del libro “Rottamare Maastricht”, di A. Barba, M. D’Angelillo, S. Lehndorff, L. Paggi, A. Somma (Deriveapprodi), Roma, 27 ottobre 2016

Lo scopo del libro, dall’Introduzione di Paggi, è aiutare ‘la costruzione di un movimento anti-Maastricht diverso da quello populista’, sottrarre al populismo ‘il monopolio della critica della situazione esistente’; combattere Maastricht come cultura, concezione del mondo, proposta di civiltà; a tal fine aiutare a ‘trasformare la protesta sociale in conflitto distributivo e in alternativa politica’, aiutare ‘la costruzione di un movimento ancora inesistente’, per la qual cosa ‘occorre mettere sul tappeto il problema di una filosofia di governo alternativa e di un programma che indichi, in primo luogo sotto il profilo concettuale, alcuni punti di scorrimento verso un’Europa politica della crescita’.
Il libro non si spinge a proporre esplicitamente questa filosofia di governo alternativa o programma (l’Introduzione si limita a indicare il bisogno di più democrazia più salario più produttività, ma senza entrare nel come raggiungere questi obiettivi); piuttosto fornisce analisi preliminari per dimostrare la necessità di aprire il dibattito; tre messaggi in particolare emergono dai cinque contributi.

Primo messaggio, che emerge dai contributi di Paggi e Somma: la storia di come si arriva a Maastricht è storia di abbandono, e tradimento, dell’idea originaria di una unione politica europea collaborativa, unificante; Maastricht ha di fatto creato con la moneta unica un ostacolo a tale obiettivo, perché aumenta le differenze e i conflitti tra i paesi membri dell’euro, ponendoli in concorrenza l’uno con l’altro. Il che è parte di un generale liberismo feroce: gli ispiratori sono von Mises, Hayek, aggiungerei Ayn Rand (adorata da Greenspan). Lo scopo centrale è la riduzione della democrazia, e la distruzione del welfare state ottenuto dalla popolazione europea dopo la seconda guerra mondiale. Paggi riporta un passo eccezionale dai diari di Guido Carli, steso poco dopo la sua firma del trattato di Maastricht (ne salto qualche frase per brevità):
“L’Unione Europea implica la concezione dello ‘Stato minimo’, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, ... , una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva degli enti locali [cioè niente solidarietà nazionale, F.P.], il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, ... , la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e dell’industria, ... , l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi [dunque non piena libertà ai mercati, ma solo quella compatibile con l’assenza di inflazione, F.P.], l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe. In una parola: un nuovo patto tra Stato e cittadini, a favore di quest’ultimi.” Non era dunque difficile capire a cosa mirava Maastricht.
Somma aggiunge che la J P Morgan in un documento del 2013 dice candidamente che bisogna affossare le costituzioni europee progressiste generate, al crollo del fascismo, dalla forza della sinistra, e cioè quelle sudeuropee, che tengono in elevata considerazione la tutela dei diritti dei lavoratori e rispettano “il diritto di protestare nel caso in cui si imprimano cambiamenti non condivisi dello status quo”. 
Secondo messaggio, che emerge dai contributi di Barba e D’Angelillo: una diversa interpretazione del ruolo dato dalla classe dirigente tedesca alle esportazioni. Le esportazioni non bastano per la crescita, fa notare Barba, perché non possono crescere a sufficiente velocità a meno che non si basino su una crescente compressione salariale, che però riduce la domanda e annulla l’aumento della domanda dovuto all’aumento delle esportazioni.
“la crescita trainata dalle esportazioni è una strategia mirante non alla crescita, quanto piuttosto a consentire e preservare il mutamento distributivo avverso ai salariati. Si tratta di una delle manifestazioni del fatto che per i capitalisti è preferibile avere crescita frenata e una posizione di forza sul piano della distribuzione, piuttosto che avere crescita alta e accettare un più basso tasso di profitto”.
L’alta occupazione in Germania non inganni, è largamente apparenza, per l’enorme importanza del lavoro part-time.
 D’Angelillo aggiunge che non è che la Germania investa poco, è che investe e compra all’estero, cioè il capitale tedesco si espande molto di più del pil tedesco, e il surplus di bilancia commerciale e l’afflusso di capitali aiutano; mentre la delocalizzazione riduce il costo del lavoro. Questo chiarisce meglio il perché del mercantilismo tedesco tanto sottolineato da Cesaratto e altri.
La conclusione da trarne è che la Germania non è la locomotiva dell’area euro ma ciò che la frena, al fine di impedire aumenti salariali interni e di poter usare il suo vantaggio competitivo per espandere il controllo del suo capitale al di fuori dei suoi confini. Se l’Italia vuole più occupazione e più crescita deve liberarsi di questo freno e aumentare la domanda (interna), e ciò richiede di buttare a mare Maastricht, e forse anche l’euro (sul che ritorno), che le impediscono una politica economica tesa a tale fine.
Terzo messaggio, con Lehndorff: è miope prendersela solo con la Germania, nessun governo si è opposto ai vari trattati, nessuno si è opposto al principio antisolidaristico del no bail-out, nessuno si è opposto a come è stata trattata la Grecia: “una ‘coalizione dei non volenterosi’ è tenuta insieme da un potente collante: il credo condiviso secondo cui ‘non c’è un’alternativa’ all’approccio delle politiche neoliberiste”. In Germania ci credono particolarmente fanaticamente. Senza questo credo il sistema di Maastricht sarebbe molto meno capace di resistere, sostiene Lehndorff.
Trovo questi tre messaggi del tutto convincenti. Dal terzo, ricavo l’importanza di insistere sul fatto che invece l’alternativa c’è. Questa alternativa consiste nel keynesismo ‘socialdemocratico’ degli anni ’50 e ’60, ben caratterizzato da un passo dell’americano Council of Economic Advisors del 1965 (l’era Johnson), riportato a p. 60 del libro “La scomparsa della sinistra in Europa” di Barba e Pivetti. Questo keynesismo è stato sconfitto, a livello scientifico/accademico, dalle tesi liberiste e ordoliberali sul funzionamento dei mercati, ma queste poggiano su una impostazione teorica, quella neoclassica, incoerente a livello logico e smentita in modo clamoroso dalla realtà, e che è riuscita ad affermarsi negli anni ’80 solo per via della sua convenienza politica (a fronte delle agitazioni di sinistra della fine anni ’60 e inizio anni ’70). A fronte delle palesi smentite fornite dalla crisi del 2008, l’impostazione neoclassica sopravvive per la paura a ammettere una visione meno apologetica del capitalismo (come quella classica-keynesiana, ben altrimenti solida logicamente e empiricamente), e per inerzia, perché è difficile uscire da un modo di vedere le cose martellato nel cervello univocamente per decenni. Negli uffici studi delle banche centrali, e in certi dipartimenti universitari, c’è qualcosa di simile al fanatismo religioso nell’adesione a teorie palesemente smentite dalla realtà, come che non vi è disoccupazione involontaria, che riduzioni della spesa pubblica aumentano i consumi, che riduzioni dei salari aumentano l’occupazione anche indipendentemente dagli effetti sulle esportazioni. Non posso ovviamente dimostrarlo qui, ma vi sono argomenti teorici inoppugnabili dimostranti che è falso:
- che il debito pubblico sia sempre da evitare (Gran Bretagna anteguerra, Giappone)
- che la disoccupazione non sia riducibile se non si vuole inflazione (neocorporatismo; Ray Fair)
- che la liberalizzazione del commercio internazionale fa sempre bene (industrie nascenti)
- che politiche fiscali espansive spiazzano gli investimenti
- che bisogna lasciare piena libertà ai mercati finanzari (Keynes!)
- che è meglio che le banche centrali siano indipendenti.
          Inoltre l’evidenza empirica smentisce chiaramente
- che non si possono avere controlli sui movimenti di capitali (Cina, Cipro, Islanda)
- che l’innovazione si può lasciare ai privati (Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud: Mariana Mazzucato)
- che le privatizzazioni aumentano sempre l’efficienza dell’economia (municipalizzate; ferrovie inglesi; sistema sanitario statunitense).
Se non si inforcano i paraocchi delle teorie economiche liberiste, appare chiaro che l’economia dei paesi avanzati ha grande flessibilità, la produzione e l’occupazione si adeguano alla domanda aggregata, l’investimento non ha bisogno di mercati finanziari ipersviluppati ma solo di buone prospettive di vendite, l’intervento statale al fine di stimolare la domanda aggregata è utile, l’inflazione si evita con accordi tra le parti sociali e con la creazione di imprese pubbliche calmieratrici, l’eventuale inefficienza delle imprese pubbliche si evita se lo si vuole. Insomma un’alta occupazione non solo è desiderabile, è anche possibile.
Il politico non economista ha ovviamente il problema, a chi credere. Se ha concluso che l’attuale ‘sistema di Maastricht’ sta facendo solo male all’Europa e in particolare all’Italia, ne ricavi stimolo a cercare di capire meglio chi ha ragione nel dibattito su come funziona il mercato e quale spazio deve avere l’intervento statale. Sono convinto che arriverà rapidamente a capire che l’impostazione classica-keynesiana-kaleckiana è chiaramente quella che afferra come funzionano le cose. Del resto, solo con programmi fondati su una tale impostazione c’è qualche possibilità per una formazione politica di ottenere l’appoggio del lavoro dipendente che oggi vota Lega perché il PD fa politiche di austerità. Senza un distacco radicale dalle politiche dell’austerità e dalle teorie che vi stanno dietro, una formazione politica a sinistra del PD non ha senso. Il M5S deve prendere posizione su questo, il suo capo mi sembra ne sappia troppo poco di macroeconomia e evita troppo di discuterne. [Nota: gli altri relatori alla presentazione del libro erano Galli e Fassina, parlamentari della Sinistra Italiana, e Marco Zanni, parlamentare europeo M5S.]
Direi dunque che non ha senso fare politica a sinistra del PD se non si ritiene sbagliata l’impostazione teorica liberista e invece corretta quella classica-keynesiana. Allora mi sembra che vi sia una battaglia scientifica da fare, che è anche politica, e può avere frutti tanto più importanti quanto più Lehndorff ha ragione. Credo possibile rompere la torre d’avorio dei credenti nel liberismo, costringere gli ‘esperti’, gli accademici, il pubblico colto, a confrontarsi con gli argomenti critici e la visione alternativa. Bisogna organizzare una serie di incontri scientifici politicamente sponsorizzati e approvati, in cui le teorie economiche dei banchieri centrali o di uno Schauble vengano attaccate durissimamente come frutto di dogmatismo e ignoranza, fino all’irrisione. Se questi convegni saranno politicamente sponsorizzati e approvati da una formazione politica di un qualche peso, sarà molto più difficile ignorarli. Ne seguirà (se come fermamente credo le tesi classico-keynesiane si mostreranno le più convincenti) un mutamento dell’opinione pubblica.
Potendo, io sarei per licenziare tre quarti degli ‘esperti’ che lavorano nelle banche centrali, e sottoporre gli altri a duri corsi obbligatori di aggiornamento. Non potendolo fare, si deve cercare di smontarne l’arroganza. Qualsiasi movimento politico che voglia riconquistare una credibilità a sinistra deve farlo.
L’altra cosa che questo libro mostra è che qualsiasi movimento politico che voglia riconquistare una credibilità a sinistra deve affrontare molto seriamente, di nuovo sponsorizzando un dibattito scientifico aperto, la questione di come modificare il ‘sistema di Maastricht’, e cioè, vista l’enorme difficoltà a modificare i trattati (opposizione tedesca, necessità dell’unanimità), la questione se uscire unilateralmente dall’euro. Su questo il livello di rigore scientifico di chi cerca di dimostrare che l’uscita sarebbe un disastro è sconcertante. Nessuno di costoro si misura con i lavori che hanno sostenuto che certo l’uscita non sarebbe una passeggiata ma si può fare: a cominciare dal lavoro (Bootle) che ha vinto nel 2012 il premio Wolfson per il miglior studio su come uscire dall’euro, premio la cui commissione giudicatrice era composta a maggioranza da economisti conservatori e liberisti tra cui Giavazzi; il vincitore sosteneva appunto che uscire non è un disastro, e che dopo un breve periodo di turbolenze la crescita riprenderebbe più veloce. Contro i terroristi intellettuali che preconizzano svalutazioni del 50%, Bootle la prevede del 10%, e con un’inflazione al 7% per un anno e poi in diminuzione. Alberto Bagnai riporta vari altri studi stranieri che sostengono la stessa cosa, e la conferma con le proprie stime, che mi sembrano serie. In Italia c’è anche stato il capitolo di Sergio Levrero nel libro elettronico Oltre l’Austerità curato da Cesaratto e Pivetti. E l’argomento che l’Italia da sola è troppo piccola dimentica la Corea del Sud, o l’Australia.
Vi è forse una alternativa all’uscita dall’euro se si vuole stimolare crescita e occupazione: violare Maastricht andando molto di più in deficit, e fregarsene delle sanzioni, giacché queste saranno meno rilevanti dell’aumento delle entrate dovuto all’aumento del pil, se i soldi vengono spesi bene. L’argomento è semplice: l’austerità ha fatto aumentare il rapporto debito/pil, dunque l’abbandono dell’austerità lo farà diminuire! E i detentori stranieri di debito pubblico italiano, che non sono stupidi, capirebbero che una spesa pubbica che stimoli il pil  (e ovviamente anche, tramite politica industriale ben fatta, stimoli l’investimento e l’innovazione, per cui la maggiore crescita si annunci duratura) rende meno probabile un default italiano, perché aumenta le entrate statali. Ma la BCE e Bruxelles non ce lo lascerebbero fare a lungo. Non c’erano motivazioni di rischio di bancarotta che giustificassero bloccare le banche nella crisi greca, ma lo hanno fatto, per piegare Tsipras. (E in passato, come Paggi ricorda, hanno costretto Baffi a dimettersi perché sollevava obiezioni alla moneta unica; e hanno costretto Berlusconi, chissà con quali ricatti, a lasciare il governo a Monti.) Quindi in un modo o nell’altro uno scontro duro ci sarà, se l’Italia non accetta tutto quello che la BCE vuole. In questo scontro duro non bisogna fare l’errore di Tsipras: non avere un piano B consistente nell’essere pronti all’uscita. La minaccia di uscire è l’unica cosa che può dare un potere contrattuale – e forse (io sospetto) uscire è in ogni caso la cosa migliore da fare. Né bisogna rinunciare a discuterne solo perché ora non sembra esservi un sufficiente sostegno popolare all’uscita. Ciò che rende l’uscita poco popolare è la paura che questa causi inflazione che intacchi pensioni e risparmi. Su questo c’è senza dubbio da lavorare per capire come minimizzare questo rischio, in ogni caso molto meno grave di quanto si tende a suggerire (Bootle, Bagnai). Una formazione politica che voglia portare avanti la rottamazione di Maastricht deve stimolare, o impegnarsi essa stessa in, seri studi su tutto ciò. Credo che potrebbe trovare in Bagnai un utile riferimento per avviare questo lavoro. 
(Fabio Petri è stato sino a due anni fa professore ordinario di Economia politica presso l'Università di Siena. E' uno dei più noti esperti internazionale di teoria del capitale. Continua a insegnare, su base volontaria, collaborando, fra l'altro, al corso di Post-keynesian Economics).

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