Pubblichiamo in versione integrale nostra recensione uscita il 24/9/13 su il manifesto. La versione pubblicata è un po' più corta (il che spesso la migliora!), e chi vuole leggersi quella è qui. Il titolo redazionale è incomprensibile, dunque qui lascio il mio.
L’Europa è sfinita
Sergio Cesaratto
Il libro di Massimo D’Antoni e Ronny Mazzocchi “L’Europa non è finita” (Editori internazionali riuniti, 2013, con una postfazione di S.Fassina) riflette tutte le contraddizioni dell’europeismo volenteroso della sinistra del PD. Esso è, infatti, costretto fra un’analisi della crisi (grosso modo) condivisibile e una visione speranzosa della sua evoluzione che manca di tenere in sufficiente conto il conflitto fra gli interessi nazionali che caratterizza l’Europa per quello che è rispetto a quello che si vorrebbe fosse. Nello spiegare la crisi dell’euro, troppo peso viene al riguardo attribuito alla condivisione da parte delle élite europee della visione “neo-liberista” del funzionamento dell’economia, visione che avrebbe permeato la costruzione della moneta unica: “La crisi deriva …da un difetto di disegno dell’Unione, che rispondeva a una visione inadeguata del funzionamento dell’economia, figlia di una precisa stagione ideologica” (p. 259). A onor del vero, gli autori non cadono nel mantra del “neo-liberismo” ripetuto a ogni piè sospinto e puntualizzano che “la sola ideologia e quello che potremmo chiamare lo spirito del tempo non sono tuttavia [spiegazioni] sufficienti” e che “ i passaggi cruciali del processo di unificazione europea andrebbero ricondotti nella sfera della volontà politica ovvero dei rapporti di forza tra governi” (p.63). Più avanti (pp. 228-231) gli autori toccano la “questione tedesca” alludendo – forse senza la dovuta energia – alla profonda incompatibilità fra il modello mercantilista che il capitalismo tedesco si è scelto, e un’unificazione monetaria con un segno progressista (mentre ai tedeschi va benissimo lo stato di cose presente). Nonostante questo quadro negativo, il leitmotiv del volume è, tuttavia, che “rilanciare il progetto di integrazione europea e salvare il modello sociale europeo sono le due facce della stessa medaglia” (p. 29). Ma alla luce dell’assenza di forze in direzione di questo rilancio, questa rischia di apparire un’affermazione alquanto retorica, simile alle stucchevoli perorazioni del Journal of Social Europe più che a una analisi realistica. “Il progetto di integrazione monetaria europea e la distruzione dello stato sociale in gran parte del continente sono le due facce della stessa medaglia”, se la vogliamo dir tutta.
Da competenti economisti - D’Antoni dell’Università di Siena collabora ora con Fassina all’Economia, Mazzocchi è all’Università di Trento, ambedue ben noti ai lettori de l’Unità per i loro articoli contro l’austerità – gli autori sorreggono le loro analisi con argomenti articolati. Non sfugge però al lettore che lo scontro è spesso ridotto a quello fra cattivi e buoni, fra conservatori e fautori di una “good society” con tanto “welfare” e un tocco di Keynes, in cui i buoni non potranno che prevalere. Una parte notevole del volume (capp. 2 e 3) è, in effetti, dedicata a una strenua difesa dello stato sociale in cui gli autori cercano di difendersi dall’accusa che esso nuoccia alla crescita o “distorca l’allocazione delle risorse”, impostazione che sfortunatamente assume l’orizzonte dell’equilibrio economico generale neoclassico corretto per l’esistenza dei “fallimenti del mercato” (la cosiddetta “economia del benessere”). La difesa dello stato sociale è così ridotta all’idea che reti di sicurezza minime incentivino gli individui ad assumere il rischio che può loro derivare dal perseguire le opportunità offerte da forme di maggiore integrazione esterna come quella europea – rischio che, con una fastidiosa retorica veltroniana (o renziana), viene definito come la “capacità di decidere della propria vita, quindi anche di rischiare mettendosi in gioco, creare, progettare”, p.257). Non c’è assolutamente bisogno di ricorrere al più caratteristico dei concetti dell’economia dominante, quello individualista degli incentivi, per spiegare le ragioni dello stato sociale e di come esso possa ben integrarsi con un’economia di mercato, sia come elemento di sostegno della domanda aggregata (fatto mai citato dagli autori) che come fattore di consenso. Basti rifarsi alla tradizione degli economisti e sociologi scandinavi come Walter Korpi (i quali avevano però solidi studi marxisti alle spalle).
Correttamente respinta l’idea che un eccesso di dissipatezza fiscale da parte dei paesi europei periferici sia alla base della crisi, gli autori indicano nelle bolle immobiliari favorite dai flussi di capitali dai paesi centrali la fonte dei problemi. Com’è noto, la crescita della domanda nei paesi periferici ha favorito le esportazioni dei paesi centrali con conseguente indebitamento della periferia. Sostenendo la domanda aggregata in Europa, questi eventi hanno paradossalmente nascosto per 10 anni l’anima nefasta (deflazionista) dell’euro. Ma al riguardo gli autori non evitano di scivolare di nuovo nel moralismo neoclassico quando accusano i paesi periferici di aver sperperato in bolle edilizie le risorse provenienti dall’estero (p. 57). Essi mancano, infatti, di inquadrare questi eventi come l’ennesimo caso di sviluppo effimero fomentato dagli afflussi di capitale estero, di cui la crisi indiana di queste settimane è l’ennesimo esempio (si legga la meravigliosa Jayati Ghosh su The Guardian 26/8). Roberto Frenkel e numerosi altri hanno molto scritto su questo (si veda Cesaratto, DEPS, working paper 682). Gli autori ritengono che in Europa si poteva far meglio, con un quadro istituzionale europeo che nell’avviare l’unificazione monetaria, non avesse trascurato il differenziale strutturale di competitività centro-periferia. La loro proposta è forse relativa a politiche industriali più incisive a favore delle aree periferiche. Le difficoltà della Germania con i propri land orientali (per non parlare del nostro Mezzogiorno) depongono però male. Senza attribuire poteri magici alla flessibilità del cambio, la perdita di un tasso di cambio competitivo implica una dipendenza secolare e alla lunga irreversibile di aree deboli che si integrino valutariamente con aree forti – sebbene le prime possano nel breve periodo vivere crescite effimere seguite da crisi e stagnazione secolare. In questo contesto, nel volume manca un’analisi del caso italiano il quale non ha condiviso le vicende immobiliari degli altri periferici, ma per il quale la perdita di un cambio competitivo rimane la ragione di fondo della crisi (che naturalmente potenzia le altre più endogene). Ambiguo è anche sostenere che le retribuzioni nei paesi periferici siano cresciute più che nei paesi centrali (p.65). Se si tratta di retribuzioni nominali va bene (e ciò è ahimè sufficiente per far perdere competitività), ma non certo di quelle reali perché in Spagna e Italia, ad esempio, i salari reali sono scesi.
Nel capitolo 4 gli autori tornano sui limiti della costruzione monetaria europea: l’assenza di un’unione bancaria che eviti che crisi bancarie nei paesi membri degenerino in crisi fiscali (stati che salvano banche zombie, e banche decotte che salvano stati in fallimento); il comportamento non sufficientemente risoluto della BCE; le differenze col modello federale americano e i suoi ampi trasferimenti fra stati membri; i vantaggi che la Germania ha derivato dalla moneta unica senza dare leadership economica in cambio, anzi regole perniciose come il fiscal compact. Timidamente accostano l’euro al gold-standard, humus di crisi del debito nei paesi periferici e gabbia alla crescita e alla democrazia economica. Ma nonostante questa lista di elementi negativi, gli autori si mostrano (moderatamente) ottimisti. Così delineano tre opzioni.
(i) Quella basata sulle politiche attualmente perseguite dall’Unione, giudicata negativamente.
(ii) L’abbandono della moneta unica, considerata non convincente. Al riguardo, essi non han torto nel giudicare complicato attuare una rottura dell’euro, che appena apparisse fra le opzioni del dibattito democratico sconquasserebbe i mercati finanziari. Non è, tuttavia, condivisibile ciò che sostengono che laddove fosse possibile superare questi problemi di transizione, la scelta lascerebbe un’Europa astiosa e in dissoluzione (p. 245). Se i passaggi fossero concordati non sarebbe necessariamente così, mentre è proprio l’Europa che si profila ora a essere rancorosa e disintegrata. Che singoli paesi non se la passerebbero bene nel mondo globalizzato, come sostengono i due autori è poi falsissimo. La Polonia, che si guarda bene dall’entrare nell’euro, non se la passa assai meglio di noi?
(iii) La terza via preferita dagli autori è dunque quella del più Europa, un processo di piccoli passi che essi vedono delinearsi, bontà loro. L’ostacolo risiederebbe, a loro avviso, nello iato fra una “élite cosmopolita” e i costi del processo che ricadrebbero su singoli popoli e individui, di nuovo una visione un po’ liberale in cui è il particulare dei molti a opporsi alla lungimiranza dei pochi (p.255). In fondo integrazione e moneta unica van bene, sembra di capire, serve solo un po’ più di rete di protezione europea per i perdenti della “sfida” dell’apertura e, magari, un po’ più di politica industriale. Al riguardo, essi sembrano affidarsi all’abbrivio della storia verso il superamento degli stati nazionali. Al momento, tuttavia, non ci sembra di scorgere neppure un pallido segno di una volontà politica europea di procedere verso una vera unificazione politica che presupponga la convergenza dei diritti sociali di tutti i popoli coinvolti e un forte impegno allo sviluppo dei paesi periferici. Vediamo al massimo l’asservimento della periferia europea alle esigenze tedesche di un retroterra di forza-lavoro a buon mercato.
Le speranzose conclusioni degli autori, assai poco realistiche in un’Europa che non deflette neppure un po’ dalle proprie disgraziate scelte, potrebbero non aiutare ad accrescere la consapevolezza della necessità estrema che abbiamo di un governo che tuteli i nostri interessi nazionali a fronte della prevaricazione esterna. L’elevato standard di analisi del volume ne fa comunque uno strumento utile per una convergenza, attraverso un dibattito dai toni franchi, fra coloro che si oppongono allo stato di cose presente.
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