L’ombra sinistra di Karlsruhe su BCE e
recovery fund
La sentenza
della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio ha aperto il vaso di Pandora
delle contraddizioni dei tre pilastri della governance
europea, giuridico, politico ed economico. Essa è una ferita inferta alla BCE, lasciata
sinora sola ad affrontare gli effetti economici della pandemia, e la sua ombra
ricade anche sull’iniziativa Merkel-Macron del recovery fund.
La sentenza ne
ha avute per tutti, BCE, Corte di giustizia europea (CGE) e persino parlamento
e governo tedeschi, colpevoli di non aver tutelato i propri cittadini.
Suo
oggetto è stato il programma di acquisti di titoli pubblici e privati (PSPP)
iniziato da Draghi nel 2015, più noto come quantitative easing, contestato da
alcuni cittadini tedeschi. La Corte ha ritenuto l’intervento legittimo, ma sproporzionato
rispetto all’obiettivo di far risalire l’inflazione al 2%. La BCE non avrebbe inoltre
tenuto conto delle vittime collaterali del programma, come i fondi
pensionistici (tedeschi) danneggiati dai tassi di interessi negativi e,
soprattutto, dello sconfinamento della politica monetaria in quella fiscale col
sostegno alle finanze pubbliche dei paesi ad alto debito, così sottratti alla
frusta dei mercati e alle inevitabili manovre di aggiustamento. Ad oltrepassare
le proprie competenze – violazione nota nel diritto tedesco come azione ultra vires – sarebbe stata anche la CGE
che in una sentenza del dicembre 2018 favorevole alla BCE avrebbe sottaciuto le
menzionate violazioni. Poiché queste ultime sono costituzionalmente
inaccettabili per la Germania, ecco l’ingiunzione alla BCE - in violazione
della sua indipendenza - di giustificare entro tre mesi il proprio operato pena
il ritiro della Bundesbank dal PSPP. La sentenza ha lasciato i più atterriti.
Dal punto di
vista della governance giuridica la
sentenza disconosce il principio della superiorità dell’ordinamento europeo su
quelli nazionali. L’ordine impartito dalla Corte tedesca alla BCE impallidisce
di fronte al colpo inferto all’ordinamento costituzionale dell’UE. La CGE ha
risposto seccamente alla Corte, ma avrà la Commissione europea coraggio
sufficiente di intentare una procedura d’infrazione contro la Germania aprendo
una crisi nella governance politica? Si
può infatti governare l’Europa contro la Germania? Inoltre, dato che la istituzioni
che governano l’Europa hanno palesi deficit democratici, difficilmente sinceri
democratici potranno contestare alla Corte tedesca di giudicare sulla base
della propria costituzione se esse rispettino o meno le deleghe loro concesse.
Il merito della sentenza può dispiacere, ma il metodo non è facilmente
contestabile. Il pasdaran europeista dirà che si tratta allora di
democratizzare l’Europa e non di ritirarsi nei confini nazionali. Il punto è
che decisioni democratiche pan-europee implicano una solidarietà politica che esisterebbe
se l’Europa fosse una nazione, ed essa non lo è, se non per qualche élite
finché è gratis parlarne. Ciò che viene costituzionalmente tutelato in Germania
è proprio il diritto dei cittadini di decidere sull’uso delle risorse fiscali
nazionali, che non è dunque delegabile. Davvero agli europeisti piacerebbe un’Europa
solidale costruita sul rafforzamento delle tecnocrazie europee in barba alle
prerogative costituzionali nazionali? Dopo la moneta senza stato avremmo la
solidarietà senza base popolare!
La Corte ha
sferrato un colpo mortale anche all’incompleta governance economica europea in cui all’assenza di una politica
fiscale comune si è supplito con un sovraccarico di compiti sulla BCE che, alla
lunga, non è sfuggita al verdetto di condanna a cui la corte di Karlsruhe da
tempo anelava. Attenzione però ad accusare la Corte di incompetenza economica -
che naturalmente c’è tutta – in quanto in punta di diritto essa ha anche in
questo caso ragioni da vendere: la politica monetaria della BCE ha sconfinato
nella politica fiscale. La Corte ha così fissato precisi paletti alla BCE:
durata prefissata del programma di acquisto dei titoli, rispetto delle quote
spettanti a ciascun paese, dismissione dei titoli a fine programma. Proprio
quei paletti che, guarda un po’, la BCE sta violando col nuovo programma (PEPP) volto
a sostenere i paesi più colpiti dalla pandemia. Implicito l’invito a questi
ultimi perché si facciano bastare il MES light (quello utile per l’acquisto di mascherine
senza che le condizionalità iscritte nelle regole esistenti siano state rimosse).
E quando i nodi finanziari verranno al pettine ricorrano al MES vero,
ristrutturando il loro debito a carico di banche e risparmiatori e stringendo
la cinghia.
Si potrebbe
ritenere che la Corte tedesca abbia però rilanciato la palla alla politica
europea perché si assuma le proprie responsabilità smettendola di delegarle
alla BCE. Al riguardo, non solo il piano franco-tedesco per un indebitamento
europeo di 500 miliardi ha vistosi limiti in quanto una tantum, contenuto nella
mole, legato a un preciso piano di restituzione a valere sui futuri bilanci
europei (che quindi erogheranno meno fondi), vincolato all’adozione di “sound
economic policies” da parte dei paesi beneficiari, ambiguo nella destinazione
dei fondi (sostenere la ripresa dei paesi in sofferenza o settori high tech dei
paesi più forti?) e da ultimo soggetto al veto degli altri paesi rigoristi. Ma
siamo soprattutto lontani anni luce da una riforma organica della governance
economica europea, su cui si proietta l’ombra sinistra della sentenza di
Karlsruhe e degli interessi nazionali che di essa si fanno scudo.
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