Uscire dall’austerità? Si può. Intervista a Sergio Cesaratto - Senso comune
Domanda:
La sua impostazione pare ricalcare, richiedendo un nuovo interventismo
statale, le linee dello sviluppo dell’economia italiana più improntate
al keynesismo. Ma molti considerano tale sistema entrato in crisi negli
anni ’70 per motivi strutturali, non solo affossato per motivi politici.
Secondo lei sarebbe possibile ripristinare un impianto simile? E nel
caso con quali differenze rispetto al passato?
Risposta: Il modello era entrato in
crisi perché la piena occupazione creava indisciplina sociale e perché
l’Unione Sovietica entrò in crisi, e non rappresentava più una sfida al
capitalismo, che poté così tornare al suo volto peggiore. Il primo
problema si cura con un compromesso sociale e una economia partecipata.
Il secondo, la fine di una possibile aspirazione al socialismo, non ha
al momento una cura. Ma già sarebbe tanto tornare a un capitalismo
progressivo.
D: Cosa pensa della obiezione
secondo la quale la dispersione produttiva da un lato e lo sviluppo dei
mercati internazionali dall’altro indebolirebbero il moltiplicatore
keynesiano? Quali eventuali misure dovrebbero essere attuate per
eventualmente oltrepassare tale difficoltà?
R: Questi fattori sono stati funzionali,
accanto alla disoccupazione interna, a indebolire il potere
contrattuale delle classi lavoratrici. Una reazione si è comunque
manifestata, come prevedeva Polany, attraverso forme populiste purtroppo
guidate dalla destra. Ma la sinistra in nome dell’internazionalismo e
del cosmopolitismo è lungi dal fare autocritica e dal riconoscere la
centralità della comunità nazionale.
D: Secondo molti osservatori la
finanza ha acquisito una netta supremazia sull’economia e occorrerebbe
“ritornare all’economia reale”. Altri argomentano che la
finanziarizzazione è uno sbocco della evoluzione dell’economia reale,
per cui più che tornare all’eden utopico di una economia sana
occorrerebbe modificare in profondità tutto l’assetto. Qual è la sua
posizione? e cosa pensa si dovrebbe fare per riorganizzare l’economia
attorno alla centralità del bene comune e delle esigenze delle classi
lavoratrici?
R: Il potere dei mercati finanziari e
della libertà di movimenti di capitale andrebbero drasticamente ridotti.
Non è però che vi sia un’”economia reale” sana a cui tornare. Anche
l’economia reale è capitalista e va messa sotto maggiore controllo. Il
problema è che per il momento la ribellione è guidata dalla destra, che è
a sua volta liberista.
D: Il Presidente della BCE,
Mario Draghi, nel suo intervento al convegno “State of Union” della
scorsa settimana, ha messo in luce la necessità di creare uno strumento
di bilancio per risolvere il problema dell’eccessiva concentrazione dei
capitali nei paesi “core” a seguito dei periodi di shock. Questa
proposta, che forse doveva essere avanzata qualche anno fa, troverà
forti resistenze politiche ed, inoltre, va nella direzione opposta
rispetto a quella paventata nel documento dei 14 economisti
franco-tedeschi, in cui è chiaro il tentativo di rafforzare il potere
disciplinante dei mercati. Che ne pensa?
R: Non so se la domanda è posta
correttamente. Mi sembra che Draghi si allinei alla proposta che gira da
molti anni presso le istituzioni europee di creare una piccola capacità
fiscale a livello europeo (un mini-bilancio federale) da utilizzare in
funzione anti-ciclica, per esempio attraverso prestiti ai Paesi in crisi
che li utilizzerebbero come temporanei sussidi di disoccupazione. Si
tratta di proposte largamente insufficienti.
D: Debito pubblico e crescita:
detto che non esiste una soglia del rapporto debito/pil oltre oltre la
quale è provato scientificamente si arresti la crescita, è altresì vero
che il nostro debito pubblico è molto fragile perché denominato in
valuta straniera. Ancora oggi, molti economisti, giornalisti ed analisti
vari sostengono con forza la necessità per il nostro Paese di fare
austerità, di incrementare l’avanzo primario, portandolo intorno al 4%,
così da metterci nelle condizioni di avere maggiori margini di manovra
nel futuro. Peccato, mi verrebbe da dire, che l’austerità iniziata nel
2011, oltre a diversi mesi di recessione, abbia determinato un
peggioramento dei conti pubblici con un incremento del rapporto
debito/pil passato dal 116% del 2011 al 132% del 2014. A suo avviso,
nella condizione in cui ci troviamo ora ha senso auspicare un aumento
dell’avanzo primario per tentare di mettere i conti in regola (relazione
non concretizzatasi nel recente passato), oppure sarebbe preferibile da
subito scommettere sulla ripresa attraverso un ragionato piano di
investimenti pubblici?
R: Un aumento dell’avanzo primario è
un’assurdità poiché mortificherebbe la già anemica crescita, ci
rigetterebbe nella recessione e incidendo negativamente sulle entrate
fiscali, da un lato, e sul Pil, dall’altro, peggiorerebbe il rapporto
debito/Pil. Meglio allora una politica basata su bassi tassi di
interesse e robusti tassi di crescita. Poiché i tassi di crescita
implicano il ripudio dell’austerità fiscale, si devono perseguire disavanzi
primari, non surplus. Se l’obiettivo fosse quello di stabilizzare il
rapporto debito/Pil (non ridurlo), conti alla mano vi sarebbe spazio per
la crescita. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di un nuovo governo
progressista: stabilizzare il debito e crescere.
D: Alcuni economisti sostengono
che se uscissimo dall’euro e ridenominassimo i titoli nella nuova divisa
nazionale, questi ultimi non sarebbero facilmente collocabili sul
mercato per paura di una futura svalutazione. Si realizzasse questo
scenario, per finanziarie il deficit pubblico saremmo costretti a
indebitarci nuovamente in una solida valuta straniera. Cosa ne pensa?
R: La scommessa sarebbe che una maggiore
competitività esterna consenta uno spazio fiscale interno in modo tale
che i disavanzi pubblici siano finanziati con risparmio nazionale
(generato da quei medesimi disavanzi). A norma di manuale di
macroeconomia, una svalutazione consente una politica fiscale espansiva,
le due cose vanno assieme.
D: Per concludere, vorremmo
porle una domanda sulla politica nazionale: ritiene che un governo,
rappresentante di una Paese centrale come il nostro, se deciso a dare
battaglia in sede europea possa avere la forza per ottenere dei
risultati significativi? oppure all’interno di questa UE fondata su basi
ordoliberali non vi è alcun margine per attuare politiche espansive?
R: La seconda delle due. Già sarebbe
tanto se riuscisse a ottenere condizioni di uscita onorevoli, vale a
dire senza ritorsioni da parte dei partner. Questo potrebbe essere
possibile con un impegno congiunto a stabilizzare la nuova lira dopo una
sufficiente svalutazione iniziale. Una breve rassegna dei problemi
relativi all’uscita dall’euro è nel capitolo finale del mio nuovo libro.
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