domenica 26 novembre 2017

Altruismo, incentivi e informazione: due o tre cose che so sull’esperienza socialista

Pubblichiamo con qualche trepidazione alcune pagine sul socialismo, partecipando a modo nostro all'anniversario e soprattutto al dibattito sul futuro della sinistra.




Altruismo, incentivi e informazione: due o tre cose che so sull’esperienza socialista
Sergio Cesaratto
<What does the economist economize? "'Tis love, 'tis love," said the Duchess, "that makes the world go round." "Somebody said," whispered Alice, "that it's done by everybody minding their own business." "Ah well," replied the Duchess, "it means much the same thing." ... if we economists mind our own business, and do that business well, we can, I believe, contribute mightily to the economizing, that is to the full but thrifty utilization, of that scarce resource Love – which we know, just as well as anybody else, to be the most precious thing in the world> (D.H.Robertson 1954, p. 154, citazione di Alice da Lewis Carroll)*

Sommerso dalla didattica e dal chiudere un po’ di lavori, non ho potuto seguire con grande attenzione quanto pubblicato in queste settimane in occasione del centenario della rivoluzione sovietica. Del resto quel poco che ho letto (in italiano o in inglese) non mi è stato di grande ispirazione. Manca una chiave. Questa chiave io non ce l’ho. So due o tre cose che, come al solito, ho imparato dai maestri. Un solo lavoro che ho letto recentemente (Foley 2017) mi è stato di qualche stimolo. Ma anch’esso è per gran parte una intelligente rivisitazione del più importate dibattito economico sul socialismo, quello che a partire dal famoso articolo del 1908 del noto marginalista italiano Enrico Barone (1859-1924) discusse la possibilità di una economia socialista, quanto questa si potesse effettivamente discostare da quella capitalistica e l’efficienza relativa dei due sistemi. Di questo dibattito sapemmo da studentelli di economia – quando eravamo ancora allattati con la Vodka – dal benemerito napoleoncino (Napoleoni 1971). Qualcos’altro ho imparato dai maestri circa gli effetti perversi che la piena occupazione ha determinato sulla disciplina e la produttività, sia di qua che di là della cortina di ferro. Poi non molto altro, ma non ho letto tanto sull’argomento, per cui è con un po’ di presuntuosità che scrivo. Del resto è un argomento mostruosamente vasto e il meglio è nemico del bene.

1. Il mercato è buono. Ai “compagni” (e “compagne”) non è spesso chiara la problematica del coordinamento delle attività economiche in società complesse. Come spesso accade in tutto ciò che odora di sinistra “le leggi economiche possono essere sospese o ignorate”, come la mette D.Mario Nuti (2017), uno dei maggiori studiosi europei dei sistemi socialisti. A sinistra domina l’umanitarismo, l’utopia, il tutto è possibile purché dal cuore umano si lascino uscire le energie migliori. Il cuore umano è purtroppo assai poco studiato - avete mai sentito nominare un progetto di ricerca su “Siamo buoni o cattivi? e come possiamo migliorarci?”. Sarebbe troppo politicamente fastidioso. Nell’incertezza è tuttavia bene essere cauti sul cuore umano. Anzi, proprio da questa constatazione, muove la difesa che i liberali fanno del sistema di mercato: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi”, ci insegna Smith (1776, p. 18). Da punto di vista dei suoi sostenitori il sistema di mercato ha parecchi vantaggi.
1.2. Il mercato dimostra che lo stato di natura non è necessariamente quell’homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’altro uomo) di hobbesiana  memoria, e non è dunque necessario l’intervento di uno Stato autoritario che imponga pace ed ordine; lo stato di natura può rivelarsi, attraverso lo scambio, un mezzo di vantaggio reciproco e di pacifica convivenza non solo fra individui ma persino fra Stati.[1] In questo senso, evitando che sia lo Stato a regolare la convivenza umana, se non addirittura a dettarne le scelte con lo Stato etico, il mercato è a fondamento delle libertà e delle scelte individuali. La società civile può dunque vivere di vita propria. Allo Stato, anzi, è assegnato il compito di tutelare il mercato quale fondamento di libertà.
(b) Ma v’è di più. Secondo i suoi sostenitori, il mercato trasforma pulsioni negative come l’egoismo e il perseguimento dei propri vantaggi in un beneficio collettivo, e per questo molti intellettuali salutarono con favore la nuova forma di mercato (Hirschman 1979).
(c) Il mercato non solo veicola le energie negative a scopi collettivi, ma, come brillantemente argomentò l’economista di Cambridge Dennis Holme Robertson in un famoso saggio del 1956 dal titolo significativo di “Che cosa economizza l’economista?”, il mercato economizza in bontà, dove per bontà si intende moralità e spirito civico (Hirschman 1985, p. 18).[2]

Piero Sraffa, J.M.Keynes e D.H.Robertson in una famosa foto degli anni trenta
Risolto il problema economico senza dispendio delle energie più nobili, queste si possono dedicare ad opere più elevate (inclusa la generosità verso i più sfortunati). Hirschman (ibid) criticò sia l’idea che “amore, benevolenza e spirito civico” siano necessariamente risorse scarse, che quella che siano risorse infinite, giudicando che il capitalismo fosse (troppo) basato sull’idea dell’altruismo come bene scarso, e il socialismo su quella dell’illimitato altruismo umano. Ma basterebbe una pur cospicua disponibilità umana a far funzionare economie complesse?
Vi faccio l’esempio di un benemerito centro sociale che mi trovo a frequentare, orientato a sinistra e tutto basato sul volontariato. Le cene che precedono il cineforum sono a prezzo molto popolare. Tuttavia la predisposizione dei pasti e le pulizie spesso ricadono su pochi. A un certo punto è comparso l’avvertimento “la cena prima del cineforum non è assicurata” (vale a dire, o c’è condivisione della preparazione o la cena non è assicurata). Risultato è che “non è dalla benevolenza del centro sociale che ci aspettiamo il nostro pranzo”. L’altro problema è quello che anche laddove ci sia la buona intenzione di partecipare (che in fondo non manca), spesso chi si candida non sa dove mettere le mani, c’è un problema informativo, e trasmettere l’informazione costa (chi fa da sé...).[3]
2. Mercato e gerarchie. I vantaggi del mercato non si fermano infatti al “risparmio di altruismo”. Sistemi complessi in cui vige una raffinata divisione del lavoro richiedono coordinamento. Questo è svolto da un lato dalla mano invisibile smithiana e dall’altro dalle “gerarchie” (Coase 1937). L’impresa è una forma “gerarchica” di coordinare le informazioni, la mano invisibile agisce attraverso il sistema dei prezzi. Nel capitalismo il mercato seleziona la suddivisione migliore fra le due tecniche di coordinamento. Il socialismo ha optato, più frequentemente, per l’organizzazione gerarchica nella forma di una economia di comando (pianificata), ma in verità ambedue le forme sono imbarazzanti per i socialisti. La gerarchia perché oltre a essersi rivelata inefficiente in pratica, viola l’obiettivo democratico e partecipativo. Sul sistema dei prezzi si basano le forme di socialismo autogestito finendo il più spesso nel peggiore dei mondi possibile: si ereditano sia i difetti del sistema dei prezzi che quelli della gerarchia, che non può non riemergere (magari in forme peggiorative) nelle aziende autogestite (Foley, II, pp. 6-7).
Il sistema dei prezzi, in breve, funziona sul principio che se il prezzo di un bene non copre i costi di produzione, ciò rivela che se ne è prodotto troppo rispetto alla domanda; se ne dovrà dunque produrre di meno sino a quando il prezzo eguaglia i costi di produzione (che è pari al “prezzo naturale” come si sarebbe espresso Smith). Se invece esso è venduto a un prezzo superiore ai suoi costi, allora si vede che se ne è prodotto troppo poco rispetto alla domanda, e se ne dovrà produrre di più. I prezzi di mercato dunque, se troppo alti o troppo bassi rispetto ai costi di produzione (ai “prezzi naturali”) segnalano quanto produrre di ciascun bene date le preferenze espresse dalla domanda. Per Smith i prezzi naturali svolgono dunque un ruolo essenziale nel coordinare le decisioni di produzione in una economia in cui viga una accentuata divisione del lavoro; essi costituiscono la famosa “mano invisibile”. La mano invisibile è un modo di economizzare in informazione. Marx parla dei prezzi “naturali” come la stella polare dei capitalisti.
Marx è anche critico, tuttavia, di un sistema sociale il cui tessuto connettivo, il rapporto fra gli individui, è mediato dal rapporto di scambio, dal rapporto fra cose (le merci). In questo egli vide la necessità di un superamento del sistema dei prezzi. Più concretamente egli vide la necessità di un superamento di un società dualistica in cui una classe controlla i mezzi di produzione e l’altra non ha che i propri servizi lavorativi da offrire. Il controllo sociale dei mezzi di produzione è per Marx il primo passaggio verso una società diversa (Marx 1875). Il controllo sociale dei mezzi di produzione implica la pianificazione socialista (e su quali principi essa possa funzionare discuteremo fra poco). Su quali principi debba funzionare la successiva società finalmente liberata Marx (ibid, p. 962) non va oltre il famoso passo “a ciascuno secondo ...”: 
In una fase piú elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!

Il che però non sembra indicare di per sé un anarchismo delle relazioni, in quanto persino nel comunismo vi sono doveri (ognuno secondo le sue capacità) e diritti (a ognuno secondo i suoi bisogni). Engels (1972) sembra andare anche oltre. Così scrive a proposito di Bakunin e dell’idea “bakuniana di società futura”: “In questa società, prima di tutto, non esiste nessuna autorità, perché autorità = Stato = male assoluto. (Come faranno costoro a far marciare una fabbrica e le ferrovie, a comandare un bastimento, senza una volontà che decida in ultima istanza, senza una direzione unitaria: questo, naturalmente, non lo dicono). Anche l’autorità della maggioranza sulla minoranza cessa di esistere. Ogni singolo e ogni comunità sono autonomi; Bakunin però dimentica ancora una volta di dirci come sia possibile una comunità anche solo di due uomini senza che ognuno di essi rinunci a qualcosa della sua autonomia” (corsivo di Engels). Dunque nonostante la “scomparsa[della] subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro” (Marx), come “faranno costoro a far marciare una fabbrica e le ferrovie, a comandare un bastimento, senza una volontà che decida in ultima istanza, senza una direzione unitaria”? (Engels). Insomma i nostri due amici ci lasciano un po’ in mezzo al guado. Può darsi che Engels ancora si riferisca alla fase della “dittatura del proletariato”. Ma come faranno i nostri due amici dopo la dittatura “a far marciare” questo e quello “senza una volontà che decida in ultima istanza, senza una direzione unitaria”?
3. Non importa se il gatto sia bianco o sia nero
In questa situazione di incertezza fu gioco facile per Enrico Barone (1908) argomentare che, comunque sia, un’economia socialista non potrà che imitare i medesimi meccanismi di allocazione delle risorse del sistema di mercato, cambia solo il management, per così dire. Sicché alla mano invisibile si sostituisce quella visibile della pianificazione, ma in fondo il problema del pianificatore rimarrà quello di imitare al meglio i meccanismi di mercato. Barone ha chiaramente in mente l’equilibrio economico generale marginalista, un sistema complesso di equazioni di domanda e offerta di merci e di “fattori produttivi” che determina l’output e la sua distribuzione sulla base delle preferenze dei consumatori, delle dotazioni originarie di “fattori” (come lavoro, capitale e terra) e delle conoscenze tecniche. Ebbene, un pianificatore efficiente non potrà far altro che cercare di stimare quelle equazioni e allocare i “fattori” scarsi fra i molteplici possibili impieghi cercando di soddisfare così le preferenze dei soggetti.[4] Foley (2017/I, p. 12) ci ricorda come in effetti la storia del socialismo, a partire dalle prime scelte di Lenin, siano state un ping pong fra rigida pianificazione ed elementi di mercato.[5] Ma gioco facile ebbero anche i successivi economisti marginalisti come Ludwig Von Mises a denunciare che i calcoli del pianificatore avrebbero richiesto milioni di dati ed equazioni, una sfida insormontabile per chiunque. Più tardi Oskar Lange (un marginalista socialista) sostenne che i computer avrebbero agevolato i calcoli. Si può però facilmente ribattere che i computer hanno bisogno di essere alimentati con le informazioni, e queste sono milioni - e inoltre non statiche, cioè in continua evoluzione a causa, per esempio, del progresso tecnico. Ecco allora il colpo finale di Friedrich Hayek: il vantaggio della mano invisibile risiede proprio nella capacità dei prezzi di veicolare l’informazione dispersa, ma non è solo questo. Il mercato offre anche gli incentivi ai diversi livelli (dal manager all’artigiano al semplice esecutore) perché ciascuno abbia l’interesse a condividere le informazioni (e a impegnarsi a sfruttarle al meglio). Siamo tornati ad Adam Smith. Se si legge una storia dell’economia sovietica, che essa abbia funzionato incontrando mille difficoltà e problemi appare scontato: il miracolo appare che abbia, nonostante tutto, in un qualche modo funzionato![6]
Se Atene piange... Molta di questa discussione si basa su un equivoco assai poco notato. La mano invisibile dei classici non implica la piena occupazione o la massimizzazione di un qualche benessere sociale; quella dei marginalisti sì. Per questo i classici sono compatibili con la “mano visibile” dell’intervento pubblico keynesiano. Naturalmente ci muoviamo ancora nell’ambito dell’economia di mercato. In sintesi: si può voler sostenere che il sistema dei prezzi abbia dei vantaggi informativi; tuttavia da qui ad argomentare che il mercato sia il panglossiano migliore dei mondi possibili ne passa assai.

Come argomenta Foley (ibid, pp. 16-17), sebbene da un lato Marx abbia sfruttato le teorie di Smith e Ricardo per dimostrare le contraddizioni del capitalismo, i due economisti borghesi capirono bene i vantaggi del sistema dei prezzi come veicolo informativo, ma in questo Marx non li seguì. Certo, Marx ritiene il sistema di mercato come transeunte. Il dibattito classico su pianificazione versus mercato non si poté che svolgere, tuttavia, su un terreno concreto, quello tecnico dei vantaggi dell’uno o dell’altro sul piano della produzione e distribuzione di merci, senza coinvolgere un mutamento dei rapporti sociali di produzione (nella fase della pianificazione/dittatura del proletariato è la proprietà dei mezzi di produzione a mutare, non la forma di produzione). Fatto sta che i socialisti sono in difficoltà sia sui vantaggi relativi della pianificazione  (l’obiettivo intermedio)– pur dando per scontati i problemi del mercato – che su come prefigurare il superamento dei rapporti sociali di produzione (l’obiettivo finale).
Sebbene si possa infine concordare con Croce al quale, nella famosa polemica con Einaudi, dovette sembrare eccessivo che l’edonismo o utilitarismo delle scelte del consumatore assurgessero al livello dei grandi principi etici e di libertà, certo è che alla stretta pianificazione socialista, specie considerate le gravi difficoltà materiali in cui essa si svolse, corrisposero gravi illibertà. E se le proteste verso l’illibertà possono avere motivazioni negli interessi privati calpestati dalla rivoluzione, non è malizioso pensare che privilegi di varia natura si siano diffusi nelle più alte sfere della nomenklatura. Lo Stato etico può notoriamente giustificare molte ingiustizie.[7]
Il sovrappiù socialista. Lo Stato sovietico non si trovò solo ad affrontare le difficoltà della pianificazione, una volta rinunciato al sistema dei prezzi. Quest’ultimo non avrebbe certo risolto il problema dell’accelerazione dell’industrializzazione volta a modernizzare il paese a scopo civile e militare. Il problema, in termini elementari, fu quello di ottenere una misura sufficiente di sovrappiù di beni di sussistenza agricoli a buon mercato per sostenere lo sforzo di milioni di lavoratori nell’industria manifatturiera. Il dilemma fu fra l’incentivare la produzione agricola indipendente attraverso un sistema di prezzi di mercato, il che però avrebbe reso i beni agricoli più costosi, ovvero l’estrazione forzata del sovrappiù agricolo irrigimentando i contadini in fattorie di Stato o cooperative, a discapito dell’efficienza produttiva.

4. Lavorare con lentezza.[8]
Abbiamo detto che la pianificazione conduce, almeno per come la conosciamo, a una gerarchizzazione delle scelte produttive che impone che gli ordini vengano assegnati ed eseguiti top-down. Anche ammettendo, per amor di ragionamento, che questo modo di gestire l’economia funzioni a dovere, ci dobbiamo chiedere se, tuttavia, gli ordini verranno doverosamente eseguiti. Il socialismo sembra infatti soffrire di un male del tutto analogo a quello del capitalismo: ove viga la piena occupazione – e nel socialismo questa è assicurata[9] -  i lavoratori comuni, occupati nelle mansioni più noiose o fisicamente spiacevoli lavoreranno il minimo possibile. Secondo alcuni questo diffuso problema – che nei paesi capitalistici ritroviamo spesso nel pubblico impiego (con nostra indignazione e frustrazione)  – avrebbe minato alla radice la produttività del sistema socialista. Il capitalismo ha risolto questo problema in due direzioni:[10] la minaccia della disoccupazione (appunto assente nel pubblico impiego) e l’incentivo a una ascesa sociale per sé e per i propri figli (“Keep up with the Joneses”). Un’economia socialista, a meno di abiurare ab ovo ai suoi obiettivi, si trova priva di questi “strumenti” di stimolo al lavoro.[11] Gli incentivi morali sono efficaci su alcuni, non su tutti. Da uno studio condotto al principio degli anni settanta in una fabbrica francese si evinse che il ritmo naturale di lavoro era... non lavorare affatto. Misure sono evidentemente possibili; oltre al miglioramento delle condizioni oggettive di lavoro, le proposte sono fondamentalmente basate su qualche forma di rotazione delle mansioni, oppure su compensazioni materiali come una significativa riduzione dell’età pensionabile per i “lavori usuranti”. Naturalmente obiezioni di vario tipo possono sorgere: è ragionevole impiegare gli individui più brillanti e socialmente utili in mansioni semplici? Basteranno queste misure a scoraggiare i comportamenti opportunistici, oppure serve comunque un grado di controllo e coercizione (bastone e carota?).
Inoltre, mi sembra che quest’ordine di problemi non riguardi in realtà solo le mansioni semplici e più spiacevoli, ma anche quelle più di concetto: qui è anche l’assenza di incentivi materiali o di gratificazioni morali, o un senso di ingiustizia e frustrazione in catene di comando in cui l’arbitrio e gli errori la fanno da padroni, a scoraggiare l’impegno lavorativo. Siamo di nuovo tornati, sembra, all’uso inefficiente dell’altruismo: come suggerito da Robertson, il mercato lo risparmia nella sfera economica, sì da lasciarne in abbondanza in quella privata, per gli affetti e per la compassione per i più sfortunati. Il socialismo ne richiede molto a tutti, decisamente troppo per i più. Qualcuno assimilerebbe questo stato alla tragedia dei beni comuni, dove il bene comune è un’economia condivisa.
Poco studiati a sinistra (se la sinistra studiasse) sono i lavori di Elinor Ostrom, più ottimisti sulla possibilità della prevalenza di comportamenti cooperativi nelle popolazioni umane in quanto ricompensati dai vantaggi della cooperazione:
“With the publication of The Logic of Collective Action in 1965, Mancur Olson challenged a cherished foundation of modern democratic thought that groups would tend to form and take collective action whenever members jointly benefitted. Instead, Olson (1965, p. 2) offered the provocative assertion that no self-interested person would contribute to the production of a public good: ‘[U]nless the number of individuals in a group is quite small, or unless there is coercion or some other special device to make individuals act in their common interest, rational, self-interested individuals will not act to achieve their common or group interests.’ … recent developments in evolutionary theory - including the study of cultural evolution - have begun to provide genetic and adaptive underpinnings for the propensity to cooperate based on the development and growth of social norms. Given the frequency and diversity of collective action situations in all modern economies, this represents a more optimistic view than the zero contribution hypothesis. Instead of pure pessimism or pure optimism, however, the picture requires further work to explain why some contextual variables enhance cooperation while others discourage it”. (Ostrom 2000, pp. 137 e 154).
La questione sembra essere che i comportamenti collettivi certamente esistono, sostenuti da adeguate norme sociali che sanzionano le violazioni, ma sono frutto di lente e fortunate evoluzioni più accentuate peraltro in determinate società umane che in altre, mentre il socialismo intende forzare “a freddo” questi comportamenti su individui e collettività impreparate, e spesso con condizioni materiali non favorevoli. Questo non implica, naturalmente, che dall’esperienza non si possa imparare.

5. Sinistra e prospettiva socialista
La somma dei due problemi, uno macro e uno micro per così dire, da un lato il funzionamento precario della pianificazione (allo stadio delle nostre conoscenza) dal punto di vista della gestione dei flussi informativi e, dall’altro, lo scarso incentivo alla partecipazione attiva alla produzione se non su base volontaristica creano una miscela esplosiva. Se c’è una inefficienza endemica del sistema macro condita con gerarchizzazione e arbitri e un regime politico illiberale e soffocante, questo non può che riverberarsi sul morale e la partecipazione dei lavoratori (a ogni livello) creando frustrazione e free riding.
La fine del socialismo reale è alla base della tragedia della sinistra, e questo viene poco percepito. Senza una alternativa socialista da contrapporre al capitalismo che coniughi benessere e libertà la battaglia per la giustizia è indebolita. Deve essere questa una rinuncia definitiva? Assolutamente no. In primo luogo il capitalismo scatenato che abbiamo conosciuto gli ultimi anni ha accentuato la diseguaglianza e demolito diritti e sicurezze, almeno nei paesi di più antica industrializzazione. La distruzione ambientale è a uno stadio molto avanzato. Abbiamo naturalmente conosciuto un capitalismo diverso, quello degli “anni gloriosi”, ma come ci siamo molte volte detti, anche questo è stato un risultato della sfida socialista, del timore che questa avesse successo. Quando quella è fallita, il capitalismo ha riproposto il suo volto ottocentesco, che risparmierà pure in “altruismo”, ma dispensa a piene mani miseria e mortificazione. L’idea che le vite non possano essere alla mercé del mercato e che la sicurezza di uno standard di vita di qualità “dalla culla alla tomba” sia assicurato è una rivendicazione sacrosanta. Qui e lì si sono manifestati dei “Polanyi moment”, di ribellione al mercato, spesso rivolti a destra (come Polanyi ci aveva avvertito). A uno stadio più minimale ma cogente, ci si dovrebbe domandare come potrebbe sopravvivere un Paese che volesse per volontà popolare distaccarsi dal ciclo capitalistico internazionale (o dall’euro). E naturalmente le nostre menti migliori dovrebbero esplorare elementi per un futuro socialista che attenui i problemi sopra illustrati (e i molti altri che a me sfuggono, il benaltrista è sempre in agguato).
Fa dunque ancor più sconcerto vedere la sinistra italiana impegnata esclusivamente in un chiacchiericcio elettorale, l’unico che sa perseguire, l’unico che conosce.
Post scriptum
In alcuni commenti un paio di amici hanno entrambi sottolineato come l’efficienza non sia necessariamente una meta del socialismo. L’assenza di un dibattito “onesto” in merito avrebbe in particolare reso i lavoratori poco consapevoli dell’esistenza d un trade-off fra impegno lavorativo e quantità e qualità dei beni disponibili. Ma di nuovo, un dibattito “onesto” in che altro si sarebbe risolto se non in un appello alle coscienze? I miei interlocutori hanno inoltre segnalato il problema della scarsa innovazione nel socialismo reale, almeno nei beni di consumo, senza un’efficace trasferimento di tecnologia fra settori (come dal militare al civile). E questo ancora ci rimanda all’inefficienza del piano nel trasferire tecnologia, nell’assenza di incentivi individuali ecc. Non ritengo questi problemi insolubili, per esempio le imprese e la ricerca pubblica nell’esperienza delle economie miste si sono rivelate molto efficienti, ma è alla logica del “bastone e carota” che dobbiamo probabilmente adeguarci, per un bel po’ di tempo ancora, temo. Il meglio è nemico del bene.
Riferimenti
Enrico Barone, Il Ministro della Produzione nello Stato Collettivista, nel Giornale degli Economisti, Sept./Oct., 2, pp. 267–293, 392-414, 1908.
Harry Braverman (1980), Lavoro e capitale monopolistico : la degradazione del lavoro nel 20. Secolo, prefazione di Paul M. Sweezy, Einaudi, Torino.
Ronald Coase (1937),"The Nature of the Firm", Economica. 4 (16), pp. 386–405.
Jared Diamond (1997) Armi, acciaio e malattie, Einaudi, Torino.
Friedrich Engels, F. (1872), Lettera a Cuno, in Marx-Engels, Le opere, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 944-6.
Duncan Foley (2017), “Socialist alternatives to capitalism I (Marx to Hayek)” e “II (Vienna to Santa Fe”, NSSR WP n. 1705 e 1706, http://www.economicpolicyresearch.org/econ/2017/NSSR_WP_052017.pdf http://www.economicpolicyresearch.org/econ/2017/NSSR_WP_062017.pdf
Vladimiro Giacché (2017), Introduzione, in Lenin, Economia della rivoluzione, Il saggiatore, Milano.
Albert O. Hirschman (1979) Le passioni e gli interessi - Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Feltrinelli, Milano.
Albert O. Hirschman (1985),Against Parsimony: Three Easy Ways of Complicating some Categories of Economic Discourse”, Economics and Philosophy, vol.1 (1), pp. 7-21.
Karl Marx (1875), Critica del programma di Gotha, in K. Marx- F. Engels, Le opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 951-75
Claudio Napoleoni (1971), Il pensiero economico del Novecento, Einaudi, Torino (ed. orig 1961, ERI; nuova ed. a cura di Fabio Ranchetti, Einaudi 1990)
Domenico Mario Nuti (2017), The rise and fall of socialism, “Inequalities, Economic Models and the Russian October 1917 Revolution in Historical Perspective”, A DOC-RI Conference, Berlin 23-24 October (Power Point presentation)
Mancur Lloyd Olson (1990), La logica dell'azione collettiva, Feltrinelli, Milano.
Elinor Ostrom  (2000) Collective Action and the Evolution of Social Norms, Journal of Economic Perspectives, Volume 14, Number 3, Pages 13 7-158
Dennis H. Robertson (1954), "What Does the Economist Economize?", reprinted in his Economic Commentaries, London: Staples Press Limited, 1956.
Ernesto Screpanti (2007), Comunismo libertario: Marx Engels e l'economia politica della liberazione, Roma, Manifestolibri, (traduzione inglese, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2007)
Adam Smith (1776 [1977) Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Oscar studio Mondadori.



* <Che cosa economizza l’economista? “’Questo amore, questo amore’, disse la Duchessa, “che fa muovere il mondo’. ‘Qualcuno ha detto’ mormora Alice, ‘che questo è fatto da coloro che badano ai propri affari’. ‘Ah bene’, replicò la Duchessa, ‘significa più o meno la stessa cosa’” ..se noi economisti badiamo ai nostri affari , e li badiamo bene, noi possiamo, io credo, contribuire vigorosamente ad economizzare, vale a dire alla piena ma parsimoniosa utilizzazione, di quella risorsa scarsa Amore – che noi sappiamo, proprio altrettanto bene di chiunque altro, essere la cosa più preziosa al mondo> (corsivo nell’originale).
[1] Che lo stato di natura coincida col mercato e lo scambio è negato dalla tradizione di Polany. Un vero comunismo primitivo si ha tuttavia (probabilmente) solo prima dell’emergere del sovrappiù (Diamond 1997). Col sovrappiù emergono il conflitto per la sua appropriazione e dunque le diseguaglianze, ed anche lo scambio fra le diverse comunità delle quote superflue del rispettivo sovrappiù (superflue dal punto di vista di chi controlla quest’ultimo).
[2] Robertson era famoso per le citazioni da Alice. Quella in apertura è ripresa, appunto, dal saggio di cui parliamo.
[3] Miracolosamente il centro sociale in oggetto tira avanti con soddisfazione, certo da ultimo in virtù di un gruppo più o meno ampio di volenterosi, ma comunque con lamentele continue su chi sfrutta la buona volontà altrui. Fra i volenterosi le motivazioni sono poi le più varie: dai più leninisti che desiderano spargere i semi della rivoluzione (e che dunque forse soffrono meno sentendosi avanguardia), a chi lo fa semplicemente per rendere più vivibile il quartiere dove vive, a chi cerca esperienze di condivisione. Si tratta di “sperimentazioni sociali” che andrebbero comunque sostenute dagli enti locali.
[4] Azzardo ad affermare che la medesima problematica si applicherebbe se si usassero prezzi alla Sraffa. Si ragionerebbe tuttavia su una teoria meglio fondata.
[5] Foley assimila gli esempi della NEP sovietica (il periodo post-rivoluzionario in cui Lenin suggerì di affidarsi al sistema dei prezzi) alla politica di Deng Xiaoping, l’artefice dell’apertura della Cina Popolare al mercato. Giacché (2017) si addentra nelle difficili scelte di Lenin nei primi anni della rivoluzione.
[6] Anche sul piano delle gerarchie il capitalismo può apparire più efficiente. Le innovazioni organizzative si basano infatti su rendere i flussi informativi quanto più efficienti e bottom-up, mentre sono piuttosto le decisioni conseguenti a essere top-down. La gerarchia pianificatoria rende invece informazioni e decisioni entrambe top-down.
[7] Ernesto Screpanti (2007) si addentra in alcuni di questi problemi in Marx.
[8] “Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo la salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo pausa pausa ritmo lento, pausa pausa ritmo lento...” (Del Re Enzo, LP Il banditore, 1974)
[9] Non saprei dire quanto dell’occupazione sia effettivamente giustificata da ragioni produttive.
[10] Ringrazio Meri Lucii e la compianta Federica Roà per alcuni suggerimenti in merito basati sula traccia di alcuni documenti inediti di Garegnani (che a sua volta ne aveva discusso con Sraffa).
[11] Il capitalismo ha anche affinato il controllo dell’impegno dei lavoratori attraverso l’organizzazione scientifica del lavoro (Braverman 1974). E’ vero che il socialismo potrebbe adottare tali metodi (e probabilmente l’avrà in certa misura fatto), ma senza la minaccia di licenziamento ogni misura sarà inefficace.

3 commenti:

  1. La robotica darà sicuramente delle risposte nel campo produttivo nei prossimi 20/30 anni. Il lavoro sarà completamente sostituito? Chi ne trarrà i vantaggi? I sovietici avevano il cosmismo, noi il transumanesimo. Sarà questa la risposta definitiva? Ha pensato a questa possibilità prof. Cesaratto? I tempi tecnici per l'intelligenza artificiale e la robotizzazione dell'economia (ammesso che la produzione di merci e il loro spostamento sia ancora importante in futuro visto che ormai con le stampanti in 3d tra poco si farà tutto in casa). E in questo scenario i tempi corrono molto più di quanto si possa pensare.

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  2. Fermi restando gli ideali di giustizia del socialismo si potrebbe provare a considerare le cose sotto un altro punto di vista ossia partendo dal presupposto, che appare inconfutabile dall'esperienza, che disuguaglianza, gerarchia e coercizione (per esempio la necessità di poter licenziare come deterrente per mantenere la disciplina, di cui lei parla nella nota) non solamente sono inevitabili ma la gente ci si adatta per lo più di buon grado e anzi spesso si fida esclusivamente di una autorità che sappia dimostrarsi inflessibile quando è necessario.
    L'ingiustizia del capitalismo (che è la stessa del socialismo per chi ha conosciuto l'URSS o la Cuba di Fidel Castro) non è quindi nel pacchetto “disuguaglianza, gerarchia, coercizione” ma nel fatto che i figli siano costretti a ereditare la condizione socio economico culturale dei genitori o anche dei nonni.
    In altre parole a mio avviso la chiave che risolve l'impasse è la mobilità sociale ossia limitare al massimo la possibilità di mantenere e tramandare una rendita di posizione.
    Si può diventare ricchi senza limiti ma non si può ereditare tutta quella ricchezza.
    Se si riescono a rendere precarie le rendite di posizione proprio quella stessa precarietà e l'aumentata facilità non solo di salire ma anche di scendere nella scala sociale contribuirebbe a sdrammatizzare le differenze di classe, spingerebbe i cittadini a richiedere un welfare sempre più di qualità perché il momento di necessità potrebbe capitare facilmente a chiunque (a causa appunto dell'incrementata “fluidità” sociale che è il termine tecnicamente corretto) e (ri)nascerebbe uno spirito di solidarietà “dal basso” che è l'unico concepibile (visti i risultati di quello imposto dall'alto. Non ho mai trovato un desiderio cosí sfrenato di distinzione sociale come nella Cuba comunista. Un tassista mi diceva che aveva un sacco di donne in famiglia e avrebbe potuto aprire un bellissimo bordello ma Castro glielo impediva per cui faceva come era costume all'inizio degli anni novanta nell'isola: ti portava la parente sotto l'albergo magnificandone le abilità. D'altra parte gli errori di politica economica cubana erano stati devastanti come quando di fronte all'incapacità di allevare bovini e ovini avevano invitato la popolazione ad andare a pesca. Nel giro di pochissimi anni il pesce era finito e avevano dovuto mettere il blocco biologico su tutte le specie. A quel punto non sapevano più cosa fare e qualcuno propose di chiudere un occhio sulla prostituzione turistica sulla quale fino a quel momento erano severissimi e il regime si salvò in maniera “boccaccesca”. Il mestiere antico lo si pratica ovunque ma a Cuba all'inizio degli anni novanta era una cosa che lasciava interdetto anche il più incallito viaggiatore esperto del resto del Sudamerica. Nel frattempo mentre la gente mangiava pochissimo una sola volta al giorno, carne una volta all'anno, gli alti papaveri del partito vivevano in villette fortificate con la telecamera lungo la strada che portava all'aeroporto in modo da poter fuggire rapidamente se le cose si fossero messe male.
    Il bene nazionale era “il turista” per cui la carne la potevano mangiare solo loro.
    Come potrà facilmente verificare su internet l'uccisione di una vacca comportava - e forse comporta ancora - una pena detentiva superiore a quella per omicidio).

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  3. SEGUE

    Occorre un cambio di paradigma che potrebbe avvenire se gli intellettuali, i partiti e i sindacati si rivolgessero alle classi meno abbienti mettendo in luce la feroce ingiustizia che li costringe a generare figli che nella stragrande maggioranza dei casi dovranno adattarsi a mestieri umili, precari e in posizione di pesante subordinazione.
    Cioè se questa idea diventasse il pilastro centrale di una nuova ideologia.
    A dispetto dei discorsi sulla “natura umana” siamo animali culturali: i paradigmi della convivenza e dei rapporti fra le classi li creiamo noi con la nostra prassi.
    Se la mettiamo in atto...

    Perché la classe media dovrebbe accettare di ridurre il privilegio per i propri figli, segnatamente quello di un accesso enormemente facilitato nel mondo del lavoro?

    Perché la classe media oggi è sotto attacco esattamente come i lavoratori e il suo capitale di classe, che è quello della cultura e della conoscenza, viene metodicamente svilito e asservito con il risultato chei figli di oggi hanno molte più difficoltà dei loro padri e i nipoti rischiano la proletarizzazione.

    La classe media ha come sola speranza quella di rivolgersi al popolo con il quale, al contrario delle oligarchie internazionali, ha ancora un fortissimo rapporto diretto (vedi Berlusconi - per il quale non ho mai votato - che è ricco come un membro della élite ma è evidentemente un uomo di classe media italiana ed è sempre seguitissimo).
    L'unica cosa che possono realmente offrire alle classi (più) subalterne sono appunto nuovi rapporti sociali.

    Forse, essendo gli intellettuali e i capi di partito per lo più classi medie, non è un caso che il problema della mobilità compaia solo di sfuggita in qualche discorso e non faccia parte esplicitamente di alcun programma.

    Credo che la questione dell'ascensore sociale e l'insistenza sulla necessità di imparare economia, finanza e qualche tesi di storia economica ai licei, potrebbero essere argomenti fortissimi in grado di ideologizzare nuovamente il confronto fra le classi sociali
    E un acceso sentimento di “lotta di classe” costituisce l'unica vera forza contrattuale delle classi piu subalterne.
    Ma allo stato in cui siamo solo gli intellettuali sono in grado di recuperare e diffondere uno spirito di rivalsa e di ribellione.

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