Pubblichiamo una mia recensione a un volume di noti storici economici sui destini economici del nostro Paese pubblicata da MicroMega
(grazie a Giancarlo Bergamini per la sua usuale acuta revisione del testo)
Ricchi per caso? Un’agenda terapeutica
per l’Italia
Sergio Cesaratto
L’Italia si
avvia alle elezioni politiche senza che alcuna formazione politica avanzi un
progetto per il Paese, un’idea di dove esso debba dirigersi. Si va dalla
continuità del “io speriamo che me la cavo” del PD al governo al vuoto
programmatico del M5S, passando per l’incubo del ritorno berlusconiano. La
sinistra vaga fra il cosmopolitismo e le trivelle. Lo scarso spessore politico
e culturale dei gruppi dirigenti delle varie compagini è palese. Per
esplicitare l’ordine di problemi che una politica all’altezza dovrebbe
affrontare, torna assai utile la lettura del volume “Ricchi per caso” curato da
Paolo Di Martino e Michelangelo Vasta (il mulino, 2017, 319 pp. 19€), due
affermati storici economici. Il volume intraprende una sorta di percorso
psicoanalitico delle ragioni profonde del drammatico passaggio storico, fra
benessere e declino, che l’Italia sta da anni attraversando. Al centro
dell’analisi vi sono infatti le istituzioni socio-politiche che costituiscono
l’ossatura del Paese, la sua costituzione reale – spesso vero ostacolo alla
realizzazione dei nobili intenti della Costituzione formale. In questo gli
autori - sette nel complesso[1]
- si rifanno a un importate filone della letteratura economica che vede nella
qualità e appropriatezza storica delle istituzioni l’anima dello sviluppo
economico.
Il volume si
compone di cinque capitoli. Il primo ripercorre le tappe dello sviluppo
italiano dall’Unità; il secondo e terzo si occupano dei limito storici delle
politiche dell’istruzione e dell’innovazione; il quarto della struttura
industriale, mentre il quinto e le conclusioni ragionano sulla relazione fra
istituzioni e sviluppo italiano nel lungo periodo.
Cosa sono le istituzioni
In Italia
tendiamo in genere a identificare le istituzioni con lo Stato, ma nell’accezione
più anglosassone a cui si riferiscono gli autori esse si identificano sia con
quello, che con le regole più informali che governano la società civile in un
continuum spesso dimenticato da coloro che si scagliano contro la casta
politica, quasi che vi fosse soluzione di continuità fra questa e la società da
cui proviene.
La letteratura
economica sulle istituzioni puntualmente richiamata in varie parti del volume
non è, naturalmente, senza obiezioni. Rammento per esempio l’accesa discussione
fra Jared Diamond e Daron Acemoglu su The
New York Review of Books nel 2012 in cui il famoso autore di “Armi, acciaio
e malattie” criticava il secondo, uno dei padri del moderno istituzionalismo,
di aver trascurato le basi materiali - e in particolare le condizioni che
circondano l’estrazione del sovrappiù[2]
- che presiedono all’emergere delle istituzioni. Certamente per ragioni di
spazio, uno dei limiti di “Ricchi per caso” è al riguardo la mancata
esplicitazione della varietà istituzionale nel nostro Paese quale spiegata dalle
condizioni materiali di produzione che si sono storicamente affermate nelle
diverse aree – conducendo, per esempio, come argomentato nel cap. 2, a
istituzioni di natura più “estrattiva” nel Mezzogiorno, in cui l’élite tende a
sfruttare le risorse in maniera esclusiva, a fronte di istituzioni più
“inclusive” in Alta Italia. Ma naturalmente il volume propone solo alcune
sedute per una psicoanalisi del Paese, la terapia completa ne richiederà molte
altre. Di certo le istituzioni una volta stabilitesi, al pari di un trauma
infantile, predeterminano il futuro, per esempio la capacità di appropriarsi
delle occasioni di mutamento delle basi materiali di produzione offerte del
progresso tecnologico. Di più, esse possono “contaminare” positivamente o
negativamente, per esempio attraverso i fenomeni migratori, le istituzioni di
altre regioni (Borjas
2015), come la cronaca giudiziaria spesso ci ricorda. Si tratta di terreni poco
esplorati nell’analisi economica e di cui questo volume e la storia del nostro
Paese sollecitano studi più approfonditi.
Le istituzioni servono a correre
Il volume si
concentra esplicitamente soprattutto sull’appropriatezza delle istituzioni
formali di cui il Paese si è dotato in relazione al progresso tecnologico,
mentre sul sottofondo rimane la questione delle istituzioni informali che
governano le relazioni sociali. Ieri come oggi la capacità di innovare è il
minimo sindacale in un mondo capitalista dove si deve sempre correre per
rimanere allo stesso posto, come opportunamente ci rammentano gli autori. Le
classi dirigenti italiane, in particolare nella delicata fase post-unitaria,
ebbero tuttavia scarsa consapevolezza dell’importanza dell’istruzione di base
diffusa, come ci spiega il cap. 2 del libro. Il capitolo ricorda come queste
debolezze permangano a tutt’oggi, basti guardare ai risultati dei test
internazionali sulla preparazione degli studenti che se vedono il nord a
livelli dignitosi, danno un’immagine preoccupante del Mezzogiorno – ma
purtroppo c’è chi si crogiola sui risultati dei voti di maturità, che offrono
un quadro più consolante. L’idea di intraprendere una terapia che porti a una
maggiore consapevolezza di sé appare purtroppo lontano in certe sezioni del
Paese. Di certo, dal canto loro, le classi dirigenti del nord soffersero di un
grave “deficit cognitivo” (cap. 5) nei riguardi del sud, che non conoscevano e
che lasciarono in balia delle locali “istituzioni estrattive”, di cui i ritardi
nelle politiche dell’istruzione pubblica furono una prima vittima.
Accanto alla
formazione (e alla ricerca) il volume si concentra sulla relazione fra la
debolezza strutturale dell’apparato manifatturiero italiano – con una
proporzione di piccole, medie e micro imprese a livelli sconosciuti nei Paesi
avanzati – e una serie di istituzioni legislative e politiche che l’hanno favorita.
Sebbene alcune fasi storiche, dal periodo Giolittiano allo sviluppo delle
Partecipazioni Statali e al boom economico, abbiano visto lo sviluppo di grandi
imprese, l’ideologia dominante è stata spesso volta a favorire la piccola
impresa. Nel dopoguerra, per esempio, vuoi il solidarismo cattolico, vuoi la
“lotta ai monopoli” di marca comunista, hanno portato a una legislazione (anche
fiscale) di sostegno all’artigianato e alle piccole imprese. Il diritto
commerciale e fallimentare non hanno a loro volta favorito il rischio
imprenditoriale – dunque la piccola impresa innovatrice destinata a crescere –
mentre la farraginosità delle norme unita alla inefficienza burocratica hanno
favorito lo sviluppo abnorme di professioni “avventizie”, come i commercialisti,
peculiari al nostro Paese. La grande impresa, dal suo canto, ha privilegiato la
protezione del mercato interno allo sviluppo multinazionale. Il conflitto
sociale che seguì il miracolo economico diede un colpo decisivo alla grande
impresa italiana, che ripiegò su se stessa finendo spesso in mano straniere. Un
tema per le prossime sedute di terapia sarà certamente la mancata capacità
della classe dirigente italiana di dotarsi di istituzioni volte al compromesso
sociale – di istituzioni socialdemocratiche per intenderci – scegliendo invece
le scorciatoie dello scontro (come lo stragismo) o di leader improbabili come
Berlusconi. Quest’ultimo fu certamente il frutto di un tessuto di piccola-media
imprenditoria di non grande lungimiranza, ma per contro il volume mette anche
in luce (cap. 5) l’incapacità della grande borghesia industriale di farsi
portatrice di un disegno modernizzatore illuminato. Ora la grande impresa non
c’è più, o è straniera, e questo depone male circa le forze che possano
sostenere un progetto di ammodernamento del Paese. Le critiche all’ideologia
del “piccolo è bello” non devono, naturalmente, farci trascurare la forza
vitale dei distretti industriali. Di certo un disegno di politica industriale
basato sulla difesa di ciò che rimane della grande industria – specie se a
rischio smantellamento da parte di mani estere - è centrale per il Paese,
sebbene le istituzioni europee non favoriscano un disegno di questo tipo. Le
privatizzazioni furono per contro un esempio di distruzione sciagurata di una
istituzione come le Partecipazioni Statali e con esse di un patrimonio
tecnologico e gestionale, sì bisognoso di riforme, ma insostituibile e ora
largamente irrecuperabile.
Lotteria Italia
Il volume è
molto pessimista circa il futuro del Paese, il titolo “Ricchi per caso” non è
accompagnato dal punto di domanda del noto volume di Ciocca “Ricchi per
sempre?” (Boringhieri, 2007), suggerendo nel capitolo 5 una casualità della
crescita italiana nei primi decenni del dopoguerra, una deviazione fortuita (e
fortunata) da un trend di crescita “lento” a cui siamo destinati a tornare.
Questo è forse un giudizio troppo impietoso, almeno nei riguardi di quelle
parti del Paese che ancora rivelano spiriti e network imprenditoriali vitali,
oltre che nei riguardi della vitalità di settori della ricerca scientifica che
lo stesso volume mette in luce. Ma i problemi esistono in tante altre aree
regionali dove non vi sono grandi spunti di sviluppo endogeno con istituzioni
inadeguate se non deleterie. Solo la mano pubblica potrà prendersi cura di
queste patologie, ma servono nuove classi dirigenti. La decadenza delle classi
dirigenti, pubbliche e private è un oggetto che le future sedute di terapia
dovranno esaminare, magari in collegamento con gli studi degli scienziati
politici sulla selezione delle élite.
Domanda o offerta?
Sottolineando il
ruolo delle istituzioni, formali e informali, il volume enfatizza soprattutto i
fattori di fondo che condizionano lo sviluppo economico dal “lato
dell’offerta”. Va al riguardo precisato che gli autori prendono apertamente le
distanze dagli “offertisti” che sostengono che sono le rigidità istituzionali
nei mercati del lavoro o dei prodotti a imbrigliare lo sviluppo italiano.
L’istituzione di cui il Paese davvero necessita è una politica di qualità non
più mercato, anzi. Il focus sull’offerta può nondimeno lasciare insoddisfatti
coloro che assegnano al “lato della domanda aggregata” un ruolo decisivo nello
spiegare la crescita, non solo nel breve ma soprattutto nel lungo periodo (Svimez/Centro
Sraffa 2017). In una visione integrata ambedue gli aspetti rivestono,
naturalmente, un ruolo essenziale. Se, ad esempio, istituzioni appropriate
costituiscono un presupposto per lo sviluppo imprenditoriale e tecnico-scientifico,
come sostenuto nel volume, è vero pure che senza un andamento sostenuto della
domanda aggregata, le imprese sono scarsamente stimolate a investire in R&S
e nei beni-capitali che veicolano il progresso tecnico. La stagnazione della
produttività nel nostro Paese nelle decadi recenti è certamente spiegata da
fattori di domanda e da scelte macroeconomiche culminate con l’adesione alla
moneta unica che hanno minato la competitività del Paese. Il volume liquida
tuttavia in maniera un po’ frettolosa la problematica della moneta unica. Di
certo essa non si è rivelata, come nel disegno Andreatta/Ciampi, un canale
efficiente per importare istituzioni virtuose dall’estero, ma bensì un
ulteriore vincolo istituzionale, veicolo di sottrazione di indipendenza
democratica per un Paese ormai in balia di scelte altrui.
Compatto e
scorrevole nonostante sia a più mani, il volume è dunque di grande stimolo per
un’autoanalisi del Paese e per ulteriori approfondimenti la cui urgenza si
palesa dalla pochezza del dibattito politico corrente.
Riferimenti
George J.
Borjas, Immigration and Globalization: A
Review Essay, Journal of Economic Literature, 2015, 53(4), 961–974
SVIMEZ/Centro Sraffa) (2017) Il ruolo della domanda nello sviluppo: il
Mezzogiorno italiano, i Sud del mondo e la crisi dell'Europa, Quaderno
SVIMEZ n. 54, http://www.centrosraffa.org/conferenceandseminarsdetails.aspx?id=37
[1] Oltre ai curatori,
primi inter pares, gli altri autori
sono: Gabriele Cappelli, Andrea Colli, Emanuele Felice, Alessandro Nuvolari e
Alberto Rinaldi.
[2] Sul concetto di
sovrappiù e su altri punti di vista qui espressi, mi si permetta di rimandare a
Cesaratto, Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi
e come uscirne, Imprimatur, 2016.
Agemoglu e i suoi coautori mi fa venire l'orticaria. Più in generale l'istituzionalismo anglosassone mi è sempre apparso inestricabilmente infarcito di un tono ideologico e moralista profondamente istituito nei più profondi passaggi della costruzione argomentativa. Nel confronto con Diamond sono sicuramente dalla parte di quest'ultimo e più in generale, nella ovvia concatenazione dei fattori, propendo decisamente a considerare che la principale direzione causale sia invertita. Tuttavia prendo atto della recensione e leggerò il libro, che sicuramente fornirà ulteriori momenti di riflessione in ogni caso utili.
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