Riprendere la crescita stabilizzando il debito
Sergio Cesaratto e Lanfranco Turci
Nel recente DEF si ammette che la
crescita italiana sarà assai debole nel 2014, peccando probabilmente di qualche
ottimismo. Le previsioni per gli anni successivi sono più rassicuranti
(dall’1,3% del 2015 all’1,9% del 2018), ma la giustificazione economica dell’ottimismo
è ridotta a una paginetta in cui non si dimostra da dove tale ripresa dovrebbe provenire
– a parte il generico richiamo a una generale ripresa dell’economia globale. Né
grandi rassicurazioni provengono dagli effetti delle “riforme strutturali” illustrati
nell’allegato Piano Nazionale di Riforme che ipotizza effetti cumulativi sul
Pil in aggiunta allo “scenario base” che vanno dal +0,8% nel 2015 sino al +2,4%
nel 2018.
Le stime degli effetti delle “riforme” sono ottenute con metodi
piuttosto opinabili e nella maggior parte dei casi le passate previsioni sono
state non solo smentite, ma rovesciate come dimostrato da un prezioso studio di
Maurizio Zenezini dell’Università di Trieste pubblicato da Economia e società regionale (13/2 2013), rivista legata
all’IRES-CGIL veneta, dedicato a “Le riforme e l’illusione della crescita”. Che
riforme di impronta liberista generino risultati deludenti non è sorprendente
in quanto volte a deprimere i salari, la domanda aggregata e conseguentemente
la spinta delle imprese a innovare, o semplicemente perché attribuiscono i mali
dell’economia italiana a feticci come il carico burocratico, pur importanti, ma
non decisivi. Sorprende però la credulità con cui vengono sistematicamente
accolte le stime di ripresa quando anche l’Ocse ammette il sistematico errore di sopravalutazione commesso negli anni recenti.
In questo quadro nessuno prende troppo
sul serio la prescrizione del Fiscal Compact della riduzione dal 2015 del
rapporto fra debito pubblico e Pil a colpi di un ventesimo all’anno della quota
eccedente il 60%. Al recente convegno sulle politiche europee promosso dal
Network per il socialismo europeo e da Laboratorio politico, l’abbiamo
paragonato come credibilità al Tanko degli indipendentisti veneti! Diversi
economisti hanno denunciato l’insostenibilità sociale degli avanzi primari (al
netto della spesa per interessi) necessari per realizzare quella prescrizione anche
assumendo tassi di crescita positivi. La
situazione potrebbe però essere persino peggiore una volta che si tenga più
pienamente conto degli effetti negativi di quegli avanzi sulla crescita. Un
economista rigoroso come Mario Nuti ha al riguardo dimostrato come con
moltiplicatori fiscali e rapporto debito/Pil entrambi relativamente elevati, politiche
di consolidamento fiscale avrebbero l’effetto di peggiorare il rapporto
debito/Pil. Questo proprio perché gli effetti negativi sul Pil (il denominatore)
sono maggiori di quelli “positivi” sul debito (il numeratore), come peraltro ha
dimostrato l’esperienza italiana di questi anni. Il Fiscal Compact non è dunque solo
socialmente insostenibile, ma è senza senso dal punto di vista dell’obiettivo
che si pone. Bisogna considerare però che, pure se inapplicato o differito, esso
rimarrebbe come un monito a mantenere comunque le politiche di severa
austerità.
Reagendo a questo quadro, politici ed economisti
di sinistra hanno con qualche timidezza chiesto che il paese violi gli
obiettivi di bilancio, come peraltro viene concesso a Francia e Spagna. L’intera
politica di bilancio europea andrebbe in realtà capovolta vincolando nel breve
periodo i saldi alla ripresa della crescita e non a “stupide” regole, come le
definì Prodi. In luogo del fiscal compact, la politica di bilancio dovrebbe
essere poi ancorata all’obiettivo di medio periodo della stabilizzazione del rapporto debito/Pil, un’idea ispirata da Luigi Pasinetti, ripresa dall’Appello
degli economisti del 2006 e poi dal Documento
degli economisti del 2011. Accompagnato da un’azione efficace della
BCE intesa a far scendere di più i tassi sul debito pubblico dei paesi
“periferici” o a piani volti a ristrutturare i debiti pubblici, disavanzi
pubblici primari e dunque politiche espansive, sarebbero compatibili con la
stabilizzazione del suddetto rapporto. Sono idee ragionevoli che l’Italia dovrebbe
far proprie nel semestre di presidenza dell’UE.
Il tessuto sociale del paese ha retto
finora con crescente fatica per la
resilienza di milioni di redditi da lavoro dipendente e autonomo e pensioni che
sostengono milioni di disoccupati, inoccupati, esodati e cassintegrati e
relative famiglie di ogni fascia di età. Ma questa base reddituale si andrà col
tempo ulteriormente erodendo proprio per effetto delle politiche di
“consolidamento fiscale”. La sinistra deve rompere ogni connivenza con queste
politiche prima di esserne travolta. Di questo si dovrebbe parlare in vista
delle prossime europee.
l'Unità, 7 maggio 2014
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