domenica 10 novembre 2013

Krugman e Vianello sulla deflazione

Paul Krugman ha pubblicato un ottimo post in cui argomenta che la mossa anti-deflazione dei prezzi di Draghi è la miglior prova che la presunta ripresa è una invenzione per gli allocchi e che la paura è la deflazione (grazie al mio amico Bergamini per la segnlazione). Naturalmente senza una politica fiscale espansiva a livello europeo e in particolare in Germania le armi di Draghi sono spuntate.

Uno splendido articolo di Fernando Vianello (con Anna Simonazzi) del 2003 su il manifesto appare di strordinaria attualità. Scritto in un momento in cui la parola deflazione fece capolino, Vienello spiega perché essa sia una sciagura. Ma allora perché, egli si domanda, gli economisti conformisti (fra cui, ahimé, v'è anche Krugman) si sperticano a predicare nelle università che la diminuzione dei prezzi è cosa buona e giusta? E' che hanno la memoria corta, e hanno ritenuto la deflazione evento dei tempi andati. Sul sito dedicato a Nando vi sono scritti splendidi. Dal classico "manifesto" della scuola scuola Sraffiano-Keynesiana
Il fascino discreto della teoria economica (con A. Ginzburg) ancora fondamentale per capire bene Keynes, al tenace riformismo radicale di  Bloccare il masso è già una conquista del 2007. E' importante che i miei giovani amici MMT e Economie M5S leggano queste cose per apprezzare come l'economia non-ortodossa abbia una storia gloriosa nel nostro paese. Vianello, per esempio, fu uno dei fondatori della Facoltà di economia di Modena nata (allora) in stretta relazione con le lotte operaie, le 150 ore (le ore di studio strappate dagli operai) e le ricerche di Sraffa e Garegnani - con una finezza intellettuale da cui oggi siamo lontani, ma che ci si dovrebbe sforzare di recuperare. Il che significa meno web, meno TV, meno protagonismo, meno narcisismo e più duro lavoro comune di studio.Abbiamo perso la fine intelligenza di Vianello nel 2009.
Godetevi il suo articolo
. Per vs. comodità copio Krugman dopo Vianello.

Il Manifesto 31 maggio 2003
Nostalgia dell'inflazione
Annamaria Simonazzi, Fernando Vianello
Gli economisti hanno la memoria corta. Ma quando due Banche centrali sono pronte a fabbricare
inflazione e la paura della deflazione corre più veloce di quella della Sars, è il momento di
rinfrescare le idee, di riavvicinare la teoria economica al buon senso. Dopo che per anni il
«pensiero» insegnato nelle università e tradotto dalle Banche ha visto nella diminuzione dei prezzi
la panacea di ogni male.


Chiusa la parentesi bellica, la paura che la malattia dei prezzi che affligge il Giappone (la
«nipponite», com'è stata chiamata) possa contagiare gli Stati uniti e l'Europa è riemersa con
prepotenza. A mostrare segni di inquietudine non è più soltanto la Federal Reserve, ma anche la
Banca Centrale Europea. La prima cerca da tempo di rassicurare l'opinione pubblica (con il rischio
di allarmarla, rivelando le proprie preoccupazioni) sulla panoplia di strumenti, ortodossi e meno
ortodossi, di cui dispone per prevenire la deflazione. La seconda ha recentemente ridefinito
l'obiettivo della stabilità dei prezzi in maniera tale da rendere chiaro che intende impedire non solo
che il tasso di inflazione salga al di sopra del 2 per cento, ma anche che esso scenda
significativamente al di sotto di tale soglia. Che due banche centrali si tengano pronte, se
necessario, a fabbricare inflazione è un fatto straordinario. Ma che dire di una banca centrale, quella
giapponese, che cerca d'impedire, senza riuscirci, la diminuzione dei prezzi? Se tuttavia nella caduta
dei prezzi si ravvisa un male da evitare, e non un bene da promuovere, a dubitare di se stessi
dovrebbero essere non solo i banchieri centrali, ma anche gli economisti. E particolarmente quelli
impegnati nelle università. Poiché ciò che essi insegnano ai loro studenti è che la diminuzione dei
salari monetari e dei prezzi è sempre in grado di garantire la piena occupazione. Gli argomenti usati
sono di solito due. Il primo, oggi molto in auge, è basato sull'«effetto Pigou», o «effetto dei saldi
reali». Il settore privato vanta dei crediti nei confronti del governo (incorporati in titoli di stato) e
della banca centrale (incorporati per lo più in banconote), il cui valore è espresso in termini
nominali. Al diminuire del livello generale dei prezzi, il valore reale di tali crediti aumenta.
Divenute più ricche, e avendo perciò meno motivi per accumulare nuova ricchezza attraverso il
risparmio, le famiglie aumentano i propri consumi. Dall'«effetto Pigou» sono invece esclusi i crediti
che alcuni membri del settore privato vantano nei confronti di altri membri dello stesso settore. In
questo caso il beneficio che la deflazione apporta ai creditori è controbilanciato, si ritiene, dal danno
che essa infligge ai debitori.

Il secondo argomento si basa su quello che viene chiamato «effetto Keynes» (ma che con Keynes
ha, come vedremo, ben poco a che fare): la riduzione dei prezzi, aumentando il valore reale della
quantità di moneta in circolazione, dà luogo, non diversamente da un aumento di quest'ultima
quantità, a una diminuzione dei tassi di interesse, che a sua volta esercita un'influenza positiva sugli
investimenti (e sui consumi, nella misura in cui sono anch'essi finanziati tramite l'indebitamento).
A proposito dell'«effetto Pigou» si deve, prima di tutto, osservare che la tendenza della teoria
economica contemporanea a trattare i comportamenti del settore privato come se fossero imputabili
a un soggetto unico (l'«agente rappresentativo») nasconde la profonda diversità che esiste fra i
comportamenti e il ruolo economico dei debitori e quelli dei creditori. Secondo una felice
formulazione di J. Tobin, se qualcuno si indebita ha di solito una buona ragione per farlo. La buona
ragione è ovviamente rappresentata da un'elevata propensione alla spesa -più elevata di quella di chi
preferisce dare a prestito il proprio denaro piuttosto che spenderlo. A indebitarsi è chi desidera
consumare più di quanto guadagni e chi intende rischiare il denaro altrui (oltre che, eventualmente,
il proprio) nelle iniziative imprenditoriali.

I debiti e gli interessi sono pagati dai consumatori con i redditi monetari degli anni successivi. E se i
prezzi dei prodotti, e dunque i redditi monetari di chi partecipa alla produzione, diminuiscono nel
tempo, il servizio del debito assorbirà una parte crescente degli introiti dei consumatori. A ciò va
aggiunto che i consumatori non possiedono solo banconote e titoli di stato, il cui valore nominale
rimane invariato, ma anche case e azioni, i cui prezzi, in condizioni di deflazione, tenderanno
anch'essi a diminuire (quelli delle case di solito con un certo ritardo). Ed è ben noto che i prezzi
delle case e delle azioni sono soggetti a diminuzioni assai più rapide e pronunciate di quelle dei
prezzi dei prodotti. Così la deflazione, se da una parte arricchisce i possessori di banconote e titoli
di stato, dall'altra impoverisce i possessori di case e di azioni. A un «effetto ricchezza» positivo
(l'«effetto Pigou») fa così riscontro un più potente «effetto ricchezza» negativo: vedendosi
impoveriti, i possessori di case e azioni riducono i consumi. Poiché, inoltre, case e azioni
rappresentano spesso la garanzia sulla cui base viene concesso il credito al consumo, la caduta dei
loro prezzi determina la contrazione di tale forma di credito.
Le imprese, dal canto loro, pagano i debiti e gli interessi con i proventi della vendita delle merci che
esse producono. E se i prezzi delle merci diminuiscono nel tempo, il servizio del debito assorbirà
una parte crescente della produzione. Impoverendo le imprese, la deflazione colpisce il motore
stesso dell'economia di mercato - i soggetti dalle cui decisioni dipende in larga misura il livello
dell'attività produttiva e dell'occupazione. E ci è di scarso conforto il pensiero che la ricchezza reale
sottratta alle imprese venga trasferita ai loro creditori. Per i quali si aggrava, d'altronde, il rischio
che le imprese non siano in grado di far fronte ai propri impegni.

Tale rischio assume un ruolo del tutto particolare quando le imprese sono indebitate con le banche,
e non direttamente con i privati. Le difficoltà in cui le imprese si dibattono allarmeranno, infatti, le
banche, le quali cercheranno di ridurre la parte del loro patrimonio formata da debiti delle imprese
e, per la parte restante, tenderanno a prediligere impieghi il più possibile liquidi e privi di rischi. E
se la banca centrale espanderà la base monetaria nel tentativo di rilanciare l'economia, assisteremo
al paradosso di un credit crunch che ha luogo proprio quando le banche nuotano nella liquidità.
Per quanto riguarda l'«effetto Keynes», va osservato che l'esborso monetario richiesto
dall'investimento precede di molto gli introiti monetari che da esso ci si attendono. Ne segue che
l'aspettativa di prezzi calanti deprime i saggi di rendimento attesi (l'«efficienza marginale del
capitale»). Alcuni progetti di investimento verranno abbandonati, altri verranno rinviati per trarre
vantaggio dalla diminuzione dei prezzi dei beni capitali (a un analogo rinvio potrà essere soggetto
l'acquisto di alcuni beni di consumo). La conclusione cui Keynes perviene è che l'effetto negativo
della caduta dei prezzi sulle aspettative si unisce a quello sull'onere reale dei debiti nell'esercitare
un'influenza depressiva sulla domanda aggregata che come minimo compensa, e probabilmente
sopravanza, l'influenza espansiva della diminuzione dei tassi di interesse. Nei termini dei moderni
libri di testo, la posizione di Keynes può essere descritta mediante una «curva della domanda
aggregata» (rispetto al livello dei prezzi) verticale, se non addirittura inclinata positivamente. Altro
che «effetto Keynes»!

Chi crede (diversamente da Keynes) nell'«effetto Keynes», ma è altresì consapevole dei guasti
provocati dalla deflazione ha cercato di riconciliare la teoria con la realtà rispolverando il vetusto
concetto di «trappola della liquidità», ossia facendo riferimento all'esistenza di un limite minimo
(identificato ormai, sulla base dell'esperienza giapponese, con lo zero) al di sotto del quale il tasso
di interesse nominale non può essere spinto né dalla caduta dei prezzi, né dalla politica monetaria.
Benché i guasti della deflazione non richiedano affatto, per manifestarsi, che si verifichi la
«trappola della liquidità» (né Keynes li metteva in alcun modo in relazione con essa), l'argomento
ha il merito di richiamare l'attenzione su un problema reale: l'inefficacia della politica monetaria nel
far ripartire gli investimenti. Inefficacia che ha però la sua radice ultima nella circostanza che la
politica monetaria, come sapevano gli economisti del passato, svolge un ruolo puramente
permissivo: essa consente di investire a chi ha motivi per farlo, ma non obbliga nessuno a investire
se i motivi per farlo difettano perché la domanda è depressa e i prezzi cadono. Sicché la politica
monetaria resterebbe inefficace anche se i tassi di interesse potessero diminuire (e le banche non
fossero restie a espandere il credito). Ma se è così, qualche sollievo può venire solo da una politica
fiscale espansiva - benché una simile politica sia comunemente descritta come buona solo a creare
inflazione (in un'economia che s'immagina perennemente incollata al reddito potenziale), e si
cantino piuttosto le lodi delle politiche restrittive, che non deprimerebbero la domanda aggregata,
ma ne modificherebbero soltanto la composizione (a favore, in particolare, degli investimenti).
Resta da accennare a un'altra via attraverso la quale si dice che la caduta dei prezzi potrebbe
esercitare un'influenza positiva sulla domanda aggregata e sul livello dell'attività produttiva:
l'accresciuta competitività dei prodotti nazionali sia sul mercato interno che sui mercati esteri. La
difficoltà pratica di cavalcare il deprezzamento del cambio reale come strumento di sostegno della
domanda nazionale a scapito dei concorrenti è, tuttavia, resa evidente dal disperato tentativo del
Giappone di opporsi all'apprezzamento nominale dello yen nei confronti del dollaro. Ed appare
concreto, più in generale, il rischio che una simile linea di condotta finisca per esportare la
deflazione da un paese all'altro e per provocare una catena di svalutazioni competitive.

Se la diminuzione dei prezzi è fonte di nefaste conseguenze, che vengono sempre più largamente
riconosciute, e turbano in misura crescente i sonni dei banchieri centrali, com'è che la teoria
economica la descrive invece come la panacea di ogni male? Come si è arrivati a una divaricazione
così forte fra teoria economica e il buon senso? In un editoriale sui rischi della deflazione,
l'Economist si giustifica per aver a suo tempo appoggiato con forza l'obiettivo di un tasso di
inflazione compreso fra lo zero e il 2 per cento, con l'argomento che «la cosa aveva un senso a quei
tempi, quando la priorità era ridurre le aspettative inflazionistiche e la deflazione era confinata a
polverosi libri di testo». Polverosi libri di testo, ecco il punto. Com'è breve la memoria degli
economisti! Quel che tutti sapevano benissimo negli anni '20 e '30, quando i prezzi cadevano, e di
molto, è stato rapidamente dimenticato non appena i prezzi hanno smesso di cadere. (Parliamo
naturalmente del livello dei prezzi osservabile nei paesi centrali; perché nei paesi periferici,
esportatori di prodotti primari, i prezzi non hanno mai smesso di cadere rovinosamente ogni volta
che nei paesi centrali venivano adottate politiche monetarie restrittive.)

Ma si dimentica, nella storia dell'economia politica come nella vita, quel che si ha motivo di
dimenticare. Alla base della strana dimenticanza di cui ci occupiamo vi è una linea di pensiero che,
bollando la teoria keynesiana come «teoria della depressione», ne ha circoscritto la rilevanza a un
caso particolare: il «caso keynesiano», appunto. Al di fuori del quale ritiene restino validi, sia pure
su basi in parte nuove, i principi della teoria economica pre-keynesiana.


Mario and the Austerians


Paul Krugman
Just an obvious point that I’m not sure enough people have been making: Mario Draghi’s surprise rate cut is, in effect, a repudiation of the nascent triumphalism of Europe’s austerians.
Those who follow these things probably noticed that just a few weeks ago the austerians — Olli Rehn in particular, but many others too — were hailing signs of a bit of economic growth this quarter as vindication of their policies for the past four years. Yes, it was silly — I mean, I could keep hitting myself in the head, then slow the pace of the punishment,and I would start to feel better. Does this mean that hitting myself in the head was good for me?
Still, there it was. But then the ECB took a look at more relevant indicators: unemployment still rising, core inflation dropping below 1 percent (Japan here we come).
And it seems to have gotten very worried.
Put it this way: the ECB wouldn’t be slashing rates if it thought Europe had turned the corner.

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