Intervista
a Ernesto Screpanti sull’imperialismo contemporaneo
di Michele Castaldo
È appena uscito il libro di
Ernesto Screpanti L’imperialismo globale e la grande crisi.
Lodevolmente, è stato pubblicato in edizione online scaricabile gratis. È un tentativo di spostare avanti, adeguandolo
ai tempi, il dibattito sull’imperialismo. La globalizzazione sta realizzando
una nuova forma di dominio imperiale nella quale il grande capitale
multinazionale, attraverso il mercato, priva di sovranità e di autonomia
politica le organizzazioni locali, i sindacati, i partiti e le istituzioni
deliberative. La grande crisi del 2007-13 ha fatto esplodere le contraddizioni
tra stato e capitale. Nello stesso tempo sta accelerando il processo di
affermazione dell’imperialismo globale. Si configura come una crisi di
transizione fra il sistema tardo-novecentesco delle relazioni e dei pagamenti
internazionali e un nuovo sistema basato sul multilateralismo, su un Super-Sovereign Currency Standard e su
una forma del tutto inedita del potere mondiale del capitale. Ho rivolto delle
domande a Ernesto Screpanti per chiarire alcune questioni cruciali e per
portare alla luce il senso in cui la sua analisi, che si presenta come
altamente innovativa pur entro la tradizione marxista, ci permette di capire
l’attuale fase dell’accumulazione capitalistica.
D) La differenza tra le tue tesi
e quelle di Lenin sono legate a una nuova fase dell’accumulazione del capitale
o si tratta di una diversa impostazione teorica nell’affrontare la questione?
R) Dai tempi di Lenin è cambiata
non solo la fase dell’accumulazione, ma anche la forma del capitalismo.
L’analisi di Lenin era adeguata per il capitalismo trustificato dell’era degli
imperi coloniali. Il capitale di ogni nazione cresceva coi profitti
monopolistici entro un mercato parzialmente protetto, e spingeva lo stato a
espandere il mercato nazionale con l’impero. Oggi il grande capitale ha
travalicato i confini degli imperi e si accumula su scala mondiale senza
riguardo agli interessi nazionali di questo o quel paese, neanche quelli in cui
risiedono le case madri delle imprese multinazionali. Degli imperi nazionali
costituirebbero delle limitazioni geografiche all’espansione commerciale e
all’accumulazione. Per questo il grande capitale di oggi è libero-scambista. La
sua ideologia è quella della globalizzazione come processo di abbattimento
delle barriere protezionistiche, mentre quella del capitale dei tempi di Lenin
era il nazionalismo protezionistico. La mia impostazione metodologica è la
stessa di Marx, e parte dalla tesi che la tendenza del capitale a proiettarsi
sui mercati mondiali è una proprietà intrinseca dell’accumulazione
capitalistica e non dipende da un difetto distributivo, come invece argomentava
Hobson, il quale individuava la radice dell’imperialismo nella cattiva
distribuzione del reddito e nella conseguente tendenza al sottoconsumo. Lenin, pur riprendendo molte tesi di Hobson,
non dà importanza al sottoconsumo e, sulla scorta di Hilferding, sviluppa
un’analisi più generale. Certamente è più marxista dell’economista laburista
inglese: non pensa che l’imperialismo possa essere combattuto con una politica
riformista di redistribuzione del reddito.
La mia analisi non è in contrasto con quella di Lenin. È una
generalizzazione della teoria dell’imperialismo e un adeguamento alla fase
attuale dell’accumulazione.
D) Volendo fissare a scala
storica il rapporto dei due conflitti mondiali con l’accumulazione
capitalistica, questa era in espansione o in depressione quando esplosero i due
conflitti?
R) La prima guerra mondiale
scoppiò al culmine di un’onda lunga di crescita della produzione e del
commercio internazionale. Scoppiò perché gli imperi coloniali avevano raggiunto
il massimo di espansione geografica ed erano arrivati a un punto di
conflittualità tale che solo una guerra poteva ridisegnarne i confini e i
rapporti di potere. Tra le due guerre ci fu invece un periodo di depressione,
di forte protezionismo, di svalutazioni e deflazioni competitive, specialmente
dopo la crisi del ’29. Il sistema dei pagamenti internazionali vigente prima
della prima guerra mondiale era entrato in crisi, il Gold Standard creava più problemi di quanti ne risolveva, la Gran
Bretagna aveva perso l’egemonia economica e la capacità di regolare l’economia
mondiale con la sua politica monetaria, ma gli Stati Uniti non erano ancora
pronti a subentrare. Quindi il sistema dei pagamenti internazionali entrò nel
caos, e ciò acutizzò alcune contraddizioni inter-imperiali. Il Giappone era
uscito dalla crisi del ‘29 adottando forti politiche di riarmo e avanzava
ambizioni imperiali sul Pacifico che gli americani non potevano tollerare. In
Europa la Germania era uscita dalla crisi prima degli altri paesi, e anch’essa
con delle politiche di riarmo. L’Unione Sovietica non aveva risentito della
crisi e cresceva a ritmi sostenuti, suscitando grandi preoccupazioni in tutte
le grandi potenze imperialiste. In altri termini il superamento della crisi del
’29 aveva consentito alla Germania, al Giappone, all’Unione Sovietica e agli
Stati Uniti di crescere in potenza economica, e aveva declassato le potenze
inglese e francese. D’altronde la prima guerra mondiale non aveva risolto i
conflitti inter-imperiali europei, né aveva fatto emergere una super-potenza
capace di sostituirsi alla Gran Bretagna. Così i conflitti sono riesplosi.
Insomma la seconda guerra mondiale si configura come una ripresa della prima,
tanto che alcuni parlano di “guerra dei trent’anni”.
D) Potresti chiarire meglio la
tesi secondo cui un paese di giovane capitalismo ma di grandi dimensioni, come
per esempio la Cina, soffre meno l’influsso depressivo della globalizzazione e
del dominio delle multinazionali rispetto a paesi minori come per esempio la
Siria, la Tunisia o l’Egitto?
R) La Cina, dopo un periodo di
accumulazione primitiva durato quasi mezzo secolo, si è aperta agli scambi
internazionali e ha potuto far trainare
la sua crescita dalle esportazioni. Ha usufruito di vantaggi competitivi
connessi al basso costo del lavoro e alle deboli politiche ambientali. Tuttavia
non ha adottato l’ideologia neoliberista. Il governo ancora dirige l’economia
nazionale: con le politiche monetarie
(L’80% del sistema bancario cinese è controllato pubblicamente); con le
politiche fiscali (ad esempio ha
risentito poco della crisi dei subprime perché ha adottato politiche fiscali
espansive, compensando la diminuzione delle esportazioni con un aumento dei
consumi pubblici); con le politiche industriali,
che mirano ad attrarre investimenti esteri mentre favoriscono al formazione di
grandi agglomerati industriali nazionali, e che sostengono gli investimenti
pubblici e privati nella ricerca scientifica e tecnologica; con le politiche commerciali verso il Sud del mondo, in
cui i cinesi propongono ai singoli paesi accordi bilaterali di baratto che non
sono in linea con l’ideologia libero-scambista del WTO. Tuttavia il fattore più
importante del successo cinese è che le politiche governative si trovano in
sintonia con gli interessi del grande capitale multinazionale, i cui
investimenti diretti esteri in Cina e le cui esportazioni di merci dalla Cina
sono incoraggiati e favoriti. Tutti i paesi emergenti godono di questi
vantaggi, ma quelli piccoli che hanno liberalizzato completamente i movimenti
di capitale, e che dipendono dagli investimenti esteri speculativi, sono più vulnerabili
alle crisi finanziarie, e i loro governi hanno meno margini di autonomia
politica.
D) Sembra di capire che una tua
tesi, in sintonia con Marx, è che l’imperialismo abbia creato nei paesi di
giovane capitalismo solo il proletariato, che il movimento dei capitali nel suo
insieme non abbia consentito il formarsi di più classi sociali al di sopra del
proletariato, ovvero di una vera e propria borghesia indigena. Da alcuni dati
empirici, relativi a Cina, India, Brasile, ma anche Siria, Libia, Tunisia,
Algeria e cosi via, sembrerebbe che le cose non stanno così. Puoi chiarire
meglio l’argomento?
R) La globalizzazione fa
aumentare la disuguaglianza economica in tutto il mondo, fa diminuire la quota
salari sul reddito nazionale e aumentare la concentrazione del reddito e della
ricchezza nelle mani dei grandi capitalisti finanziari e industriali. Tuttavia,
per quanto riguarda le classi medie, ha effetti diversi nei diversi paesi. In
quelli avanzati, in cui l’accumulazione rallenta, le classi medie s’impoveriscono
e, in seguito alla crisi 2007-13, larghi strati di piccola borghesia si stanno
proletarizzando. In quelli emergenti invece, a causa del forte sviluppo
economico, le classi medie tendono a crescere sia in ricchezza che in
numerosità.
D) Alexander Gerschenkron, in Il problema storico dell’arretratezza
economica, formula questo tipo di interrogativo: “è stato il capitalismo a
‘creare’ lo spirito del capitalismo o è
stato lo spirito capitalista a ‘creare’ il capitalismo? Puoi fornire una tua
risposta?
R) Sono propenso a credere che,
nonostante alcune ideologie religiose (come il calvinismo) abbiano favorito la
formazione del capitalismo moderno, tuttavia è lo sviluppo materiale del
capitalismo che ha fatto emergere le ideologie che lo sostengono. E le ideologie
possono essere le più diverse. Anche il cattolicesimo può essere adattato per
servire l’accumulazione del capitale, come dimostra il successo del capitalismo
italiano dei secoli XIII-XV e i miracoli economici italiano e francese del
secondo dopoguerra. Anche lo stalinismo ha potuto essere utilizzato per
sostenere l’accumulazione del capitale (nei sistemi a capitalismo di stato).
D) Secondo un concetto di Vico,
ripreso da Lafargue in Il determinismo
economico di Marx, esiste una legge fondamentale dello sviluppo delle
società secondo cui tutti i popoli raggiungono le stesse tappe storiche,
qualunque siano le loro origini etniche e il loro habitat geografico. Possiamo
affermare a questo stadio di sviluppo dei rapporti sociali a livello mondiale
che il capitalismo si è ormai imposto in tutto il pianeta con le sue leggi in
maniera irreversibile?
R) Non tutte le nazioni
raggiungono il capitalismo con le stesse tappe e con le stesse modalità. Basti
confrontare la Gran Bretagna e la Russia. Ma è vero che tutte hanno ormai
raggiunto o stanno per raggiungere la fase di piena affermazione del
capitalismo. Storicamente si è verificato un processo di convergenza al
capitalismo attraverso diverse fasi, diverse istituzioni, diverse ideologie,
diverse politiche. Il capitalismo del grande capitale multinazionale oggi
domina incontrastato tutto il globo, che tende a rendere sempre più omogeneo in
termini di struttura produttiva, di composizione sociale e di egemonia
ideologica. E’ irreversibile? Certamente lo è rispetto alle forme economiche
precedenti. Ma non c’è ragione di credere che sia eterno.
D) Il cuore del libro mi pare
risiedere nella tesi sull’impersonalità dei capitali, sulle leggi naturali che
ne regolano il funzionamento del moto, sull’accettazione di queste da parte del
personale burocratico, amministrativo, politico
e cosi via. Ma i luoghi fisici
potranno essere soltanto le sedi delle multinazionali e dei grandi istituti
finanziari?
R) Quando parlo di “Leggi
naturali” ci metto sempre le virgolette. Sono “naturali” nel senso che non
risultano da un piano centrale, né dai complotti di alcuni circoli esclusivi
(Trilaterale, Bildenberg ecc.). Benché ci siano indubbiamente alcuni centri di
potere che cercano di dirigere l’orchestra, nessuno è in grado di dominarla. Le
leggi “naturali” che regolano i mercati internazionali sono la risultante
inintenzionale delle azioni intenzionali di miriadi di agenti decisionali (i
manager delle grandi multinazionali in primis, ma anche le lobby, i dirigenti
degli organismi economici internazionali, i governatori di alcune banche
centrali, i capi di alcuni governi). Gli agenti decisionali sono così tanti e
così “piccoli” rispetto al concerto complessivo, che nessuno di essi (e nessuna
loro coalizione) riesce a dettar legge a tutto il sistema. Le leggi che lo
regolano tuttavia sono coerenti, per il semplice fatto che (quasi) tutti gli
agenti perseguono, direttamente o indirettamente, lo stesso obiettivo:
l’accumulazione del capitale. Né si deve credere che la crescita delle dimensioni
delle imprese e la loro tendenza a creare potere oligopolistico possa portare
prima o poi alla formazione di pochi grandi centri decisionali cartellizzati,
come riteneva Kautsky. Le multinazionali crescono di scala ma anche di numero. Nel 1976 ce n’erano circa
11.000. Nel 2010 sono diventate 103.788. La forma di mercato prevalente nel
capitalismo contemporaneo non è il monopolio, bensì la concorrenza
oligopolistica.
D) Ad un certo punto affermi che
“La legge del valore è una legge fondamentale del capitalismo. E’ essa che
determina il suo ‘equilibrio sociale’”. Puoi chiarire meglio cosa intendi per
“equilibrio sociale”?
R) Il concetto di “equilibrio
sociale” è di Marx. Io mi limito a riprenderlo e applicarlo all’analisi del
capitalismo contemporaneo. Marx con quel concetto vuol dire che attraverso la
concorrenza di mercato il capitale riesce ad allocare il lavoro in modo
efficiente, cioè in modo da massimizzare il profitto estraendo dal lavoro il
massimo di produttività e pagando il minimo di salario. È un equilibrio di
riproduzione, nel senso che vengono eliminate dalla concorrenza le imprese
inefficienti e quindi gli usi scarsamente produttivi del lavoro e nel senso che
la risultante distribuzione del reddito assicura la riproduzione del capitale su
scala allargata. È un equilibrio sociale capitalistico
in quanto determina un rapporto di classe compatibile con il perseguimento
della valorizzazione e dell’accumulazione del capitale.
D) “Ebbene – scrivi a pagina 124
- nell’imperialismo globale contemporaneo non si può certo dire che s’è
raggiunta la pace mondiale o che si stia realizzando anche solo una vaga
tendenza a raggiungerla. Tuttavia ha preso corpo una certa predisposizione
collaborativa dei principali stati. Tale predisposizione si manifesta sia nella
tendenza a organizzare operazioni militari concertate nei tentativi di aprire i
paesi recalcitranti alla penetrazione del capitale, sia negli sforzi più o meno
velleitari dei vari G2, G7, G10, G20 volti a predisporre delle politiche
economiche concordate. In molti casi entrambe le tendenze sono incoraggiate dal
grande capitale. Possono essere favorite dall’azione di potenti lobby
capitalistiche nazionali. La cosa interessante è che nel sistema capitalistico
globale queste lobby, che siano americane, europee o giapponesi, si lavorano le
classi politiche nell’interesse di tutto il capitale multinazionale.”
Emergerebbe in questo modo una sorta di equilibrio di “paura” da parte delle
varie componenti lobbystiche che tendono
all’accordo contro i paesi più deboli piuttosto che sfidare il concorrente per
sbranare il dominato? Insomma gli imperialisti più forti si sono indeboliti e
quelli meno forti si sono rafforzati al punto da tenersi in “pauroso”equilibrio
come gli ultimi accadimenti per la Siria dimostrerebbero?
R) I conflitti politici sono
determinati innanzitutto dalle ambizioni geopolitiche delle grandi potenze, le
quali esprimono gli interessi di potere delle classi politiche che governano
gli stati. Non dipendono direttamente dagli interessi del capitale. Questi
ultimi si fanno sentire attraverso l’azione delle lobby, le quali però non
sempre riescono a determinare direttamente l’azione degli stati. Tuttavia
accade che, alla lunga, il conseguimento degli obiettivi politici delle grandi
potenze viene piegato, attraverso il mercato, a servire gli interessi del
grande capitale globale. Oggi viviamo in un’epoca in cui l’unilateralismo
americano segna il passo, incalzato com’è dalla crescita della potenza
economica dei paesi emergenti. I recenti avvenimenti della guerra in Siria si
capiscono in quest’ottica. I russi appoggiano Assad soprattutto per conservare
le proprie basi militari nel Mediterraneo. Gli americani vorrebbero intervenire
in Siria sia per contrastare i russi sia per favorire la politica di Israele,
che vorrebbe cronicizzare la guerra civile in Siria in modo da indebolire il
suo principale nemico. Gli interessi del capitale russo non sono in cima alle
preferenze di Putin, così come quelli del capitale americano non sono in cima
alle preferenze di Obama. Non sappiamo come andrà a finire, ma non si può
escludere che gli accordi delle grandi potenze portino all’apertura dei mercati
e dei porti siriani alla penetrazione del grande capitale americano, russo,
cinese, europeo ecc. In tal caso gli interessi politici delle grandi potenze
sarebbero stati piegati a servire gli interessi economici del capitale
multinazionale.
D) A pagina 136 poni in evidenza
il ridursi dello stato a mera funzione di poliziotto per il mantenimento
dell’ordine sociale e addirittura a una aperta contraddizione tra le
multinazionali e gli apparati burocratici e politici – dunque anche partiti e sindacati – dello stato nazionale.
La domanda è d’obbligo: ma esisterebbe una linea di tendenza verso il
superamento degli stati nazionali, una sorta di estinzione di confini
geografici per arrivare a istituzioni internazionali derivanti e perciò
immediatamente controllati dalle multinazionali, insomma il rapporto esistente
a livello nazionale si accrescerebbe a livello internazionale polverizzando in
questo modo il ruolo delle burocrazie nazionali degli stati?
R) Il potere che il capitale
esercita sugli stati deriva dalla capacità degli investimenti diretti esteri e
di portafoglio di muoversi liberamente nei mercati mondiali. Gli stati, così
come i sindacati e le grandi organizzazioni politiche nazionali, sono messi
sotto ricatto: o si abbassa il costo del lavoro, la pressione fiscale sulle
imprese, il costo sostenuto dalle imprese per la tutela ambientale e la difesa
dei diritti dei lavoratori e dei cittadini, oppure il capitale delocalizza. Ciò
genera crisi fiscale dello stato, riduzione dello stato sociale e
redistribuzione del reddito dai salari ai profitti. Lo stato perde la capacità
di agire come “capitalista collettivo nazionale”, cioè di creare un blocco
sociale che coinvolga tutte le classi nella difesa degli interessi “nazionali”.
Le politiche fiscali degli stati sono sottoposte a vincoli così stretti che i
governi possono decidere solo come distribuire i tagli di benessere sociale. In
queste condizioni s’inaspriscono le spinte alla conflittualità e i governi
nazionali sono indotti a svolgere il ruolo di repressione e controllo del
conflitto, cioè ad assumere esclusivamente la funzione di “gendarme sociale”.
Il grande capitale multinazionale mira a una governance globale senza sovrano, cioè un governo del mondo
assicurato dai mercati, non dai parlamenti. L’ideologia neoliberista dello
“stato minimo” si è infine concretizzata in un sistema in cui non esiste uno
stato globale, mentre gli stati nazionali sono ridotti a svolgere solo una
funzione di disciplanamento della classe operaia e di repressione poliziesca
interna. Per questo non esiste alcuna tendenza al superamento degli stati
nazionali e alla formazione di organismi di governo sopranazionali. Le
multinazionali non sanno che farsene dell’ONU. Né hanno bisogno di forze armate
dell’ONU. Le azioni di polizia locale sono assicurate dagli stati nazionali.
Quelle di apertura dei “paesi canaglia” alla penetrazione del capitale sono
svolte dalle forze armate degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Lo “sceriffo
globale” produce un bene pubblico nell’interesse di tutto il capitale mondiale,
meglio di quanto possa fare l’ONU, e per il semplice fatto che le forze armate
americane non sono controllate da un parlamento mondiale.
D) Le cause fondamentali della
crisi attengono all’economia reale – scrivi a pag. 145. Stante dunque la legge
del valore, siamo in presenza di una sempre più accentuata caduta tendenziale del
saggio di profitto a livello globale?
R) Non so se oggi il saggio di
profitto globale stia cadendo. È difficile misurarlo. Come calcoliamo il valore
del capitale e dei profitti cinesi, russi, indonesiani? Come li omogenizziamo
al livello mondiale? In Dollari, in Parità di Potere d’Acquisto, in valute
nazionali? E nei profitti includiamo anche le rendite finanziarie e speculative
incassate dalle multinazionali, i guadagni di capitale incassati dai manager
con le stock option, le entrate
pubbliche fornite dalle imprese statali? E ci mettiamo anche i profitti delle
banche, dei fondi speculativi, delle assicurazioni, dei conduit? E gli stipendi dei grandi manager li consideriamo profitti
o reddito da lavoro dipendente? E i portafogli finanziari degli speculatori,
delle banche e delle imprese industriali li consideriamo capitale? E il valore del capitale e delle
attività che lo rappresentano lo calcoliamo ai costi storici, al valore
nominale o al valore di mercato? La scelta che si fa riguardo al modo di trattare
tutte queste variabili influenza il tasso di profitto rilevato, per cui chi
vuole dimostrare che è caduto potrebbe riuscirci, ma anche chi vuole dimostrare
che è aumentato. Quello che si sa per certo comunque è che la quota salari sul
reddito nazionale sta diminuendo in quasi tutti i paesi del mondo, avanzati,
emergenti e in via di sviluppo. D’altra parte la ricerca empirica ha dimostrato
che anche la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sta aumentando,
così come sta aumentando la concentrazione della ricchezza nelle mani dei
capitalisti e degli speculatori. Dubito che questa tendenza implichi la caduta
del saggio di profitto. La legge del
valore di per sé non può far diminuire il tasso di profitto, perché serve la
valorizzazione del capitale. E’ probabile che il saggio di profitto sia
diminuito negli ultimi decenni in alcuni paesi avanzati, ma questa non è la
causa della globalizzazione, invece ne è la conseguenza. Non sembra comunque
che il saggio di profitto stia diminuendo a livello globale.
D) Nella conclusione del V
capitolo, a pag. 169, affermi: “Oggi i governi dei paesi avanzati sembrano
incapaci di capire e fronteggiare il problema andando alle radici, e quindi di
risolverlo”. Spontanea la domanda:
possono governi diversi fronteggiare e risolvere problemi strutturali
dell’economia reale? Se si, in che modo?
R) La parola da sottolineare in
quella frase è sembrano. Nel libro
spiego che in realtà dietro l’incapacità di risolvere la crisi in Europa c’è
una precisa volontà di usarla per fare le cosiddette “riforme strutturali”,
cioè tagli al costo del lavoro, privatizzazioni di imprese pubbliche e di
risorse comuni ecc. Ma facciamo l’ipotesi che i governi volessero veramente
risolvere la crisi migliorando le condizioni di vita dei popoli e dei
lavoratori. Potrebbero farlo? La mia tesi è che nei paesi piccoli, come
l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna, il Giappone, non possono farlo.
Prendiamo il Giappone, in cui Il governo Abe sta cercando di rilanciare
l’economia con una politica fiscale e monetaria di tipo keynesiano. Ebbene la
stessa politica prevede un attacco pesante ai salari, con l’inflazione
scatenata dalla svalutazione dello Yen e con forti aumenti delle imposte
indirette. È inevitabile, se le merci giapponesi devono diventare competitive
con quelle cinesi. Alla fine si scoprirà che quella politica avrà fatto
aumentare un po’ il tasso di crescita del PIL, ma avrà fatto diminuire
ulteriormente la quota salari sul reddito nazionale. Né si può escludere, come
sostengono alcuni, che porti prima o poi allo scatenamento di una grave crisi.
Nei grandi paesi emergenti invece i governi hanno maggiori spazi di manovra
perché quelle economie si trovano in sintonia con gli interessi del grande
capitale multinazionale e possono godere dei vantaggi del basso costo del
lavoro e dell’attrattività per gli investimenti diretti esteri. In Cina infatti
il governo ha reagito alle crisi dei subprime e dell’euro adottando delle
politiche keynesiane che hanno in parte sostituito le esportazioni con i
consumi interni, soprattutto pubblici. Anche per la Cina tuttavia c’è il
rischio dello scoppio di una grande crisi (forse per l’esplosione di una
maxi-bolla immobiliare). Gli Stati Uniti hanno reagito alla crisi dei subprime
con timide politiche fiscali espansive e audaci politiche monetarie. C’è la
ripresa del PIL, ma anche una tendenza alla crisi fiscale dello stato, oltre al
gonfiamento di bolle speculative che creano instabilità mondiale. Vedremo come
andrà a finire. La mia previsione è che la ripresa americana sarà debole e di
breve durata. E veniamo all’Europa. Forse questa è l’unica economia in cui una
politica keynesiana espansiva potrebbe avere successo. Ma sottolineo forse. Se la Germania espandesse
fortemente la sua spesa pubblica, portando l’economia alla piena occupazione e
la bilancia commerciale in deficit, cioè assumendo il ruolo di locomotiva,
tutte le economie del continente si rimetterebbero in moto. La bilancia
commerciale europea tenderebbe al disavanzo cronico, ma questo non sarebbe un
grosso problema, visto che l’euro verrebbe usato come moneta di riserva
internazionale a fianco del dollaro. L’euro stesso avrebbe una tendenza alla
svalutazione, che potrebbe essere controllata dalla BCE in modo da renderla non
dirompente. La svalutazione stessa sosterrebbe le esportazioni e quindi la
crescita del PIL. Perché l’Europa potrebbe avere questo privilegio politico
mentre gli Stati Uniti lo stanno perdendo? Perché l’economia europea resta la
più grande del mondo dal punto di vista commerciale. Oggi, se la Germania fosse
capace di sostituirsi agli Stati Uniti nel rapporto privilegiato con la Cina,
potrebbe svolgere insieme a questo paese il ruolo di motore dell’accumulazione
mondiale. Ma allora perché le classi dirigenti tedesche non si muovono in
questa direzione? Perché sono stupide? No. Perché in questa fase vogliono
sfruttare la depressione e la crisi per fare le “riforme strutturali” in tutta
Europa.
D) Accumulazione e forza
dell’imperialismo. Nel VI capitolo, a pag. 183, affronti la tendenza all’indebolimento
del signoraggio degli Usa, ovvero alla messa in discussione delle tre funzioni
storiche su cui quel paese ha dominato per molti anni: banchiere, motore
dell’accumulazione e sceriffo. Potresti precisare il rapporto crescente o
decrescente degli investimenti Usa negli armamenti in rapporto alla propria
decrescita dell’accumulazione? Secondo l’Engels dell’Antidhuring la forza di
uno stato, di una nazione, è l’espressione concentrata della forza
dell’economia a un certo stadio di sviluppo. Ne dovrebbe conseguire, con la
decrescita dell’accumulazione, una decrescita degli investimenti negli
armamenti, se è vero che ‘la moneta non figlia valore’ per dirla con Rosa
Luxemburg, così come emerge a pag. 202 circa l’uso smodato della pompa
monetaria. A che punto è dunque quel
tipo di rapporto?
R) Gli Stati Uniti stanno
perdendo egemonia, e per il semplice fatto che la loro economia ha cessato di
essere la più forte del mondo. Sul commercio internazionale pesano il 10%,
quando nel 1948 pesavano il 25%. Sul PIL mondiale pesano il 19%, e nel 2010
sono sati superati dalla Cina (22%). Il dollaro è in un lungo trend di
svalutazione rispetto allo yuan e all’euro. Le spese militari sono massicce. Nel
2008 costituivano il 17,1% della spesa pubblica, la quota più alta di tutti i
capitoli di spesa, (le spese in istruzione costituivano il 3,2%). Il PIL non
cresce abbastanza, poiché i salari e i consumi ristagnano, mentre le imprese
tendono a delocalizzare gli investimenti. Quindi gli Stati Uniti, se vogliono
continuare a fare lo sceriffo globale, dovranno aumentare il peso delle spese
militari sul Prodotto Nazionale. Cosa che però farebbe aggravare i problemi di
bilancio e la tendenza alla crisi fiscale dello stato. La bolla immobiliare
d’inizio decennio ha consentito di sostenere lo sviluppo, ma ha generato un
grave deficit della bilancia commerciale e quindi una forte crescita
dell’indebitamento estero, e poi ha portato alla grande crisi. Insomma gli
Stati Uniti stanno vivendo in una contraddizione insanabile. Se restano al
servizio del capitale multinazionale, continuando a svolgere la funzione di
sceriffo globale, aumentano il debito pubblico, il debito privato (delle
imprese e delle famiglie) e il debito estero, sprofondano nella crisi fiscale,
e il dollaro perde valore e prestigio. Se vogliono evitare tutti questi
problemi devono rinunciare all’egemonia. Il governo non può più svolgere la
funzione di motore dell’accumulazione mondiale. Tendenzialmente non potrà
neanche svolgere bene la funzione di banchiere mondiale, visto che in tale
veste genera più crisi che sviluppo. E comunque il mantenimento del signoraggio
del dollaro dipende sempre più dalla benevolenza della Cina e di altri grandi
paesi emergenti, che acquisiscono nei confronti degli USA un crescente potere di
ricatto monetario.
D) Punto complicato, circa
l’oggettiva collusione di rapporto tra Usa e Cina, ove sostieni che la Cina ha
alimentato la bolla statunitense. Ora se lo scoppio della bolla ha significato
l’evaporazione di valore precedentemente accumulato – in Cina, con lo
sfruttamento del proletariato indigeno
di quel paese – quali potranno essere le
conseguenze rispetto all’accumulazione in termini di valore, il non ritorno di
quei prestiti sia in Cina che negli Usa stessi?
R) Per il momento sembra che la
Cina non voglia rovesciare il tavolo. Sta consentendo una sistematica
rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro, così favorendo la ripresa delle
esportazioni e della produzione americane. Accetta di perdere valore delle
proprie riserve, e continua a finanziare l’economia americana seppure a ritmi
meno sostenuti che nel passato. Nello stesso tempo, senza troppo rumore, si sta
sostituendo agli Stati Uniti come potenza dominante in Asia, Africa e America
Latina. Inoltre sta rinsaldando i propri legami diplomatici con la Russia e la
Germania. Sul piano monetario non ha
fatto mistero della propria intenzione di superare il Dollar Standard, ad esempio con la trasformazione del Fondo
Monetario Internazionale in una vera banca centrale mondiale che emetta una
moneta (diritti speciali di prelievo) che gradualmente sostituirà il dollaro.
Peraltro sta espandendo enormemente i propri investimenti diretti esteri, i
quali nel 2030 (secondo una previsione della Banca Mondiale) saranno il 30% di
quelli globali! Insomma la Cina sta lavorando ai fianchi. Quando arriverà l’uppercut, gli Stati Uniti perderanno il
signoraggio del dollaro e la Cina rileverà (forse insieme all’Europa) la
funzione di motore dell’accumulazione mondiale. Comunque anche la Cina ha i
suoi problemi. La grande crisi 2007-13 non ha generato una recessione nella sua
economia, ma ha fatto diminuire il tasso di crescita del PIL dal 12% al 7,5%.
Nel 2013 sarà probabilmente ancora più basso.
Si tenga presente che la Banca Centrale cinese ha calcolato che un tasso
di crescita di almeno l’8% è necessario per la stabilità sociale interna. Al
disotto di quel tasso la disoccupazione aumenta in modo preoccupante. La
conflittualità operaia è endemica e crescente. Nel 2010 è partita un’ondata di
scioperi senza precedenti che è continuata fino a tutto il 2012. E sono azioni
industriali spontanee e di massa che scavalcano il sindacato ufficiale e che
tendono ad assumere contorni illegali ed effetti politici dirompenti. Questo è
il tallone d’Achille della Cina: una classe operaia supersfruttata (dalle
imprese multinazionali, ma anche da quelle nazionali e da quelle statali). Gli
operai vengono disorganizzati dal sindacato ufficiale e quindi devono esprime
le loro rivendicazioni sfidando l’ordine costituito. Non è da escludere che il
disegno neo-imperiale e mercantilista della Cina venga messo in crisi da una
nuova “rivoluzione culturale”.
D) Veniamo alla madre di tutte le
questioni, ovvero se questa crisi ha come sbocco possibile o addirittura
obbligato una guerra mondiale come lo furono la Prima e la Seconda. “…Nel nord del mondo – scrivi a pag. 226 –
la disoccupazione è continuata ad aumentare. Se nel 2013 gli speculatori
realizzeranno che, trascinata verso il basso da Eurolandia o dal Giappone o
addirittura la Cina, l’economia dei paesi
avanzati continuerà a ristagnare, è possibile che si verifichi a breve
una nuova ondata di crash finanziari. Allora tutti i nodi dei contrasti
economici mondiali verranno al pettine repentinamente e il riaggiustamento dei
rapporti di forza tra blocchi politici continentali potrebbe essere brusco. Si
tratta di rivalità inter-imperiali insanabili, di quelle che sboccano in grosse
conflagrazioni belliche come prima e seconda guerra mondiale? Non credo. Oggi
esiste il grande capitale globale. S’incarna in imprese multinazionali che
hanno il mondo intero come campo d’azione. E tali imprese, che siano americane,
europee, giapponesi, cinesi, hanno tutte un interesse comune all’abbattimento
delle frontiere nazionali, cioè alla liberalizzazione dei mercati”. Si tratta
di una tesi abbastanza ardita, perché assegnerebbe al meccanismo oggettivo del
moto capitalistico l’attenuazione della concorrenza fra nazioni, il che
potrebbe anche starci; ma la concorrenza fra le merci, e dunque fra gli stessi
gruppi dell’oppressione del capitalismo globale, in base a quale principio
ridurrebbe fino ad annientarli i motivi della guerra?
R) Oggi le spinte alla guerra tra
grandi potenze provengono più dalle ambizioni geopolitiche degli stati che
dagli interessi del capitale multinazionale. La crisi ha accentuato la
conflittualità tra stati. Una guerra mondiale è già in atto, ma è una guerra
valutaria: Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone hanno usato svalutazioni
competitive (L’Europa ha adottato politiche di deprezzamento reale) con cui
hanno cercato di scaricare sui paesi emergenti l’onere del rilancio della
domanda mondiale. Ma non ha funzionato, in quanto ha scatenato delle crisi
valutarie in molti di quei paesi (specialmente India, Brasile, Indonesia)
spingendoli al rallentamento della
crescita. Tanto che la Federal Reserve ha dovuto rivedere i suoi programmi di
“assottigliamento” delle politiche di moneta facile. Una guerra mondiale vera e
propria mi sembra altamente improbabile. Più facile una qualche guerra per
interposta persona in Medio Oriente, oppure la continuazione di una guerra
economica di tipo mercantilista, combattuta col protezionismo e le svalutazioni
e le deflazioni competitive. Il capitale globalizzato non gradisce questo tipo
di guerra, perché riduce gli scambi internazionali e quindi i profitti. Per lo
stesso motivo non gradirebbe una devastante guerra mondiale distruttiva. Il capitale multinazionale non si identifica
con gli interessi delle classi politiche nazionali. Non è la competizione tra
nazioni che gl’interessa, ma la concorrenza oligopolistica tra le imprese sui
mercati delle merci e del controllo societario, e la concorrenza a cui i
mercati sottopongono gli stati. Questo tipo di guerra non si fa coi carri
armati e i bombardamenti “chirurgici”, bensì con le innovazioni, la pubblicità,
il marketing, il potere di mercato, la corruzione dei politici ecc. Gli stati
servono, certamente, ma più per abbassare il costo del lavoro e assicurare la
disciplina sociale che per erigere e allargare le barriere e i confini degli
imperi nazionali.
D) In ultimo, nelle conclusioni,
delinei una linea di tendenza verso una chiusura della forbice tra la
condizione del proletariato delle metropoli e quello dei paesi emergenti o di
giovane capitalismo, e l’estinzione dell’aristocrazia operaia, fino a
ipotizzare quasi una tendenza verso un’oggettiva unità internazionale del
proletariato gravida di possibili sbocchi rivoluzionari. Detto altrimenti: il
capitalismo come Sistema Sociale e moto-modo di produzione si avvierebbe per
sue stesse cause e leggi di funzionamento ad una sorta di crisi generale
obbligando in questo modo il proletariato in quanto riflesso agente ad una
azione rivoluzionaria dagli esiti tutt’altro che capitalistici?
R) La contraddizione fondamentale
del capitalismo è quella di classe. La globalizzazione la sta esasperando, in
quanto tende a redistribuire reddito dai salari ai profitti e ad aumentare la
povertà relativa del proletariato. Nello stesso tempo sta livellando su scala
mondiale le condizioni di lavoro e i salari (diretti, indiretti e differiti).
Sta creando un proletariato mondiale sempre più omogeneo
in termini di livelli di sfruttamento e
di destituzione politica. Non solo, ma sta evirando le organizzazioni
sindacali e riformiste del movimento operaio nei paesi avanzati, perché riduce
la massa di valore che può essere usata per sostenere politiche d’integrazione
operaia nei blocchi sociali capitalisti. E mentre si riducono fortemente gli
spazi di manovra per le politiche riformiste nazionali, la conflittualità
sociale aumenta in tutto il mondo. Non è detto che non possa sboccare in una
grande ondata insurrezionale mondiale.
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