http://www.radioradicale.it/scheda/379355/le-ragioni-delleguaglianza-una-discussione-sullalmanacco-di-economia-di-micromega-il-ritorno-delleguaglian
Con l'occasione posto il testo che avevo buttato giù in preparazione del mio intervento.
Nei
miei cinque minuti vorrei ricordare i punti in cui ho ingaggiato una
discussione sia sulla rivista che successivamente su Micromega on line. Circa la discussione con Reichlin, la sua tesi,
semplificando, era che uno stato sociale invadente sia dal lato dei benefici
che dei costi abbia disincentivato l’offerta di lavoro, il caso da lui evocato
delle donne meridionali che non vanno a lavorare per un’imposizione troppo
elevata sui salari per cui forme di defiscalizzazione dei salari incentiverebbero
l’offerta di lavoro. Io penso che ci sia poco da commentare per il poco buon
senso di queste posizioni, purtroppo assai influenti (altroché!) sulla
sinistra. L’idea che vi sia una strutturale mancanza di posti di lavoro e che
questa dipenda da problemi di domanda aggregata oltre che, in aree
strutturalmente arretrate, da attive politiche industriali è estranea a questo
approccio. I modelli a cui ci si rifà sono quelli marginalisti di piena
occupazione. Che poi l’Italia soffra di troppo Stato sociale, a me sembra
surreale, forse il mio collega ha la fortuna di non girare per ospedali o
scuole pubblici.
Nel
“dopo-pubblicazione”, ho discusso la questione sollevata da Franzini per cui
gli economisti “eterodossi” guarderebbero alla questione diseguaglianza con
fastidio. Andando ancora più a fondo della discussione già avuta, a me sembra
che questo dipenda dal fatto che per questi economisti la diseguaglianza è
costitutiva, per così dire, del loro approccio basato su teorie conflittuali
della distribuzione. Così si guarda con un certo scetticismo a chi si occupa di
diseguaglianza pur condividendo e insegnando (perché poi lì è la prova del
nove) teorie in cui la distribuzione del reddito quale determinata dal mercato
è definita come naturale e associata a un tasso naturale di occupazione (quello
che un tempo era definito pieno impiego). Quindi il fastidio si riferisce al
non andare a fondo della questione della diseguaglianza sullo sfondo di analisi
teoriche alternative in cui, come negli economisti classici e in Marx, non v’è
una distribuzione naturale del reddito ed essa è il risultato di rapporti di
forza fra classi sociali. Quindi il senso di fastidio non è per l’argomento, ma
per il modo in cui viene avvicinato. Per chi condivida le teorie del sovrappiù la
diseguaglianza non è un argomento speciale per gli economisti più coscienziosi
e sensibili, ma è il cuore stesso dell’analisi economica. Il fastidio riguarda
anche l’attenzione spesso portata al problema della povertà, diciamo la punta
più caritatevole di chi si occupa di diseguaglianza. Non è che la povertà, come
la diseguaglianza, non siano oggetti non meritevoli di studio in sé.
Tutt’altro! Ma è il vederli in isolamento dalle caratteristiche di fondo del
capitalismo che dà fastidio. Fa odorare di ambiguo buonismo chi pratica questi
campi (e quando dico che la prova del nove è in ciò che si insegna, è nel fatto
che gli Stiglitz, Krugman e via dicendo non hanno sinora mutato una virgola dei
loro libri di testo che pur qualche responsabilità ce l’hanno nella diffusione
della volgarità economica contro cui essi dicono ora di battersi). Diceva in un
intervento all’assemblea del PD di sabato 11 maggio un anziano e solido
militante di Genova, Andrea Ranieri, che un partito della sinistra non deve
essere quello degli ultimi, ma quello dei penultimi. Chi perora la causa degli
ultimi di solito o se la fa con i primi, oppure è la foglia di fico di chi è
connivente con le politiche che colpiscono i penultimi (ogni riferimento
all’attuale governo è voluto).
Naturalmente
con lo smarrimento di approcci alternativi v’è anche la perdita della nozione
di classi sociali, altro elemento forse di disagio per gli economisti
“eterodossi”.
Nell’approccio
del sovrappiù la diseguaglianza ha poi un legame speciale con la teoria dei
livelli di produzione e dell’accumulazione. Poiché i capitalisti e il loro
attaché tipicamente consumano solo una parte del loro sovrappiù di cui si
appropriano, sorge quello che Marx definiva il problema della realizzazione.
Tale problema è evidentemente tanto più ampio, tanto più la distribuzione del
reddito è sfavorevole alle classi lavoratrici (in Micromega si è letto che la diseguaglianza è più importante della
disoccupazione, invece di ricollegarle: affermazioni così frettolose che non
varrebbe neppure la pena menzionare se non per una certa indignazione che
suscitano).
Nella
discussione con Franzini la sua tesi mi sembra fosse che sebbene la
diseguaglianza abbia effetti di livello sull’output (positivi suppongo), non lì
ha di così certi sul tasso crescita. Il punto è rilevante poiché se vi fossero
effetti positivi sia di livello che di crescita ne risulta rafforzata la tesi
favorevole alla giustizia sociale, invece indebolita se a effetti positivi sul
livello del reddito, magari solo nel breve periodo, se ne associassero di
incerti, magari negativi, sulla crescita nel lungo periodo. La seconda è la
posizione degli economisti “wet”, Keynesiani con riguardo al breve periodo e
neoclassici nel lungo. Continua tuttavia a non risultarmi chiaro a quale analisi
economica Franzini si riferisca. Per ciò che mi riguarda, e rifacendomi al
dibattito nell’ambito dell’analisi non-dominante, vi sono due approcci, ambedue
che guardano alla domanda aggregata come la determinante dei livelli di
produzione tanto nel breve come nel lungo periodo. Il primo, definito
“neo-kaleckiano”, ritiene che un aumento dei salari reali determinando un
aumento del grado di utilizzo della capacità produttiva determinerebbe un
aumento del tasso di accumulazione proprio dovuto al tentativo degli
imprenditori di ripristinare un grado normale di utilizzo della capacità.
Questo approccio è piuttosto influente in campo “eterodosso” (per esempio Amit
Badhuri o Marc Lavoie) e, sembra, anche presso l’ILO. Le critiche mosse a
questo approccio, fra gli altri, proprio da “nostri” economisti fra cui
Vianello, Palumbo e Trezzini sembrano indebolirlo molto. Viene argomentato che,
a ben vedere, l’effetto di un aumento dei salari reali sul tasso di crescita si
basa su un mai completato aggiustamento del grado di utilizzo della capacità
produttiva che è difficile da ipotizzare. Questi modelli incontrano inoltre
l’antico problema dell'instabilità harrodiana. Un secondo forse ancora poco
noto approccio – che ha le sue radici in Kalecki, Kaldor e anche Garegnani -
enfatizza invece il ruolo delle componenti autonome della domanda aggregata
come determinanti della crescita. In questa impostazione un mutamento delle
quote distributive a favore dei salari reali avrebbe solo un effetto di livello
e non sui tassi di crescita. In effetti, a ben guardare, essendo i salari una
componente indotta dal reddito, non possono essere il primum movens della
crescita. Come le salmerie seguono. Ciò non vuol dire che però una
distribuzione del reddito più favorevole ai salari, e una loro crescita in
linea con la produttività, non renda il sistema più stabile, rendendo meno
necessaria l’espansione di forme di sostegno della domanda basate sull’indebitamente
pubblico e, soprattutto, privato. Espansione quest’ultima che molti economisti
(fra questi, prima della crisi, Massimo Pivetti) hanno individuato come germe
dell’attuale crisi. Inoltre, com’è evidente, effetti positivi di un mutamento
delle quote distributive a favore dei salari sui tassi di crescita si avrebbero
nel passaggio da un sentiero di crescita a un altro, e non si tratterebbe di
guadagni di output trascurabili. Il punto sollevato da Franzini è dunque
meritevole di discussione. Egli non chiarisce però a quale teoria si riferisca.
Naturalmente,
e chiudo, un mutamento delle quote distributive a favore dei salari potrebbe
avere effetti negativi sulla bilancia commerciale. Ma non è questa una ragione
per giustificare modelli di deflazione competitiva o di svalutazione interna
che attualmente affliggono l’Eurozona. Anzi.
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