sabato 18 maggio 2013

Il dibattito sulla diseguaglianza su radio radicale

Il dibattito del 13 maggio tenuto a la Sapienza è su Radio Radicale. Ovviamente da non perdere Massimo Pivetti che dà degli imbroglioni agli economisti mainstream, ma anche a quelli che si situano a mezza strada (anzi, dice, questi sono peggio; concordo).

http://www.radioradicale.it/scheda/379355/le-ragioni-delleguaglianza-una-discussione-sullalmanacco-di-economia-di-micromega-il-ritorno-delleguaglian

Con l'occasione posto il testo che avevo buttato giù in preparazione del mio intervento.



Nei miei cinque minuti vorrei ricordare i punti in cui ho ingaggiato una discussione sia sulla rivista che successivamente su Micromega on line. Circa la discussione con Reichlin, la sua tesi, semplificando, era che uno stato sociale invadente sia dal lato dei benefici che dei costi abbia disincentivato l’offerta di lavoro, il caso da lui evocato delle donne meridionali che non vanno a lavorare per un’imposizione troppo elevata sui salari per cui forme di defiscalizzazione dei salari incentiverebbero l’offerta di lavoro. Io penso che ci sia poco da commentare per il poco buon senso di queste posizioni, purtroppo assai influenti (altroché!) sulla sinistra. L’idea che vi sia una strutturale mancanza di posti di lavoro e che questa dipenda da problemi di domanda aggregata oltre che, in aree strutturalmente arretrate, da attive politiche industriali è estranea a questo approccio. I modelli a cui ci si rifà sono quelli marginalisti di piena occupazione. Che poi l’Italia soffra di troppo Stato sociale, a me sembra surreale, forse il mio collega ha la fortuna di non girare per ospedali o scuole pubblici.

Nel “dopo-pubblicazione”, ho discusso la questione sollevata da Franzini per cui gli economisti “eterodossi” guarderebbero alla questione diseguaglianza con fastidio. Andando ancora più a fondo della discussione già avuta, a me sembra che questo dipenda dal fatto che per questi economisti la diseguaglianza è costitutiva, per così dire, del loro approccio basato su teorie conflittuali della distribuzione. Così si guarda con un certo scetticismo a chi si occupa di diseguaglianza pur condividendo e insegnando (perché poi lì è la prova del nove) teorie in cui la distribuzione del reddito quale determinata dal mercato è definita come naturale e associata a un tasso naturale di occupazione (quello che un tempo era definito pieno impiego). Quindi il fastidio si riferisce al non andare a fondo della questione della diseguaglianza sullo sfondo di analisi teoriche alternative in cui, come negli economisti classici e in Marx, non v’è una distribuzione naturale del reddito ed essa è il risultato di rapporti di forza fra classi sociali. Quindi il senso di fastidio non è per l’argomento, ma per il modo in cui viene avvicinato. Per chi condivida le teorie del sovrappiù la diseguaglianza non è un argomento speciale per gli economisti più coscienziosi e sensibili, ma è il cuore stesso dell’analisi economica. Il fastidio riguarda anche l’attenzione spesso portata al problema della povertà, diciamo la punta più caritatevole di chi si occupa di diseguaglianza. Non è che la povertà, come la diseguaglianza, non siano oggetti non meritevoli di studio in sé. Tutt’altro! Ma è il vederli in isolamento dalle caratteristiche di fondo del capitalismo che dà fastidio. Fa odorare di ambiguo buonismo chi pratica questi campi (e quando dico che la prova del nove è in ciò che si insegna, è nel fatto che gli Stiglitz, Krugman e via dicendo non hanno sinora mutato una virgola dei loro libri di testo che pur qualche responsabilità ce l’hanno nella diffusione della volgarità economica contro cui essi dicono ora di battersi). Diceva in un intervento all’assemblea del PD di sabato 11 maggio un anziano e solido militante di Genova, Andrea Ranieri, che un partito della sinistra non deve essere quello degli ultimi, ma quello dei penultimi. Chi perora la causa degli ultimi di solito o se la fa con i primi, oppure è la foglia di fico di chi è connivente con le politiche che colpiscono i penultimi (ogni riferimento all’attuale governo è voluto).
Naturalmente con lo smarrimento di approcci alternativi v’è anche la perdita della nozione di classi sociali, altro elemento forse di disagio per gli economisti “eterodossi”.
Nell’approccio del sovrappiù la diseguaglianza ha poi un legame speciale con la teoria dei livelli di produzione e dell’accumulazione. Poiché i capitalisti e il loro attaché tipicamente consumano solo una parte del loro sovrappiù di cui si appropriano, sorge quello che Marx definiva il problema della realizzazione. Tale problema è evidentemente tanto più ampio, tanto più la distribuzione del reddito è sfavorevole alle classi lavoratrici (in Micromega si è letto che la diseguaglianza è più importante della disoccupazione, invece di ricollegarle: affermazioni così frettolose che non varrebbe neppure la pena menzionare se non per una certa indignazione che suscitano).
Nella discussione con Franzini la sua tesi mi sembra fosse che sebbene la diseguaglianza abbia effetti di livello sull’output (positivi suppongo), non lì ha di così certi sul tasso crescita. Il punto è rilevante poiché se vi fossero effetti positivi sia di livello che di crescita ne risulta rafforzata la tesi favorevole alla giustizia sociale, invece indebolita se a effetti positivi sul livello del reddito, magari solo nel breve periodo, se ne associassero di incerti, magari negativi, sulla crescita nel lungo periodo. La seconda è la posizione degli economisti “wet”, Keynesiani con riguardo al breve periodo e neoclassici nel lungo. Continua tuttavia a non risultarmi chiaro a quale analisi economica Franzini si riferisca. Per ciò che mi riguarda, e rifacendomi al dibattito nell’ambito dell’analisi non-dominante, vi sono due approcci, ambedue che guardano alla domanda aggregata come la determinante dei livelli di produzione tanto nel breve come nel lungo periodo. Il primo, definito “neo-kaleckiano”, ritiene che un aumento dei salari reali determinando un aumento del grado di utilizzo della capacità produttiva determinerebbe un aumento del tasso di accumulazione proprio dovuto al tentativo degli imprenditori di ripristinare un grado normale di utilizzo della capacità. Questo approccio è piuttosto influente in campo “eterodosso” (per esempio Amit Badhuri o Marc Lavoie) e, sembra, anche presso l’ILO. Le critiche mosse a questo approccio, fra gli altri, proprio da “nostri” economisti fra cui Vianello, Palumbo e Trezzini sembrano indebolirlo molto. Viene argomentato che, a ben vedere, l’effetto di un aumento dei salari reali sul tasso di crescita si basa su un mai completato aggiustamento del grado di utilizzo della capacità produttiva che è difficile da ipotizzare. Questi modelli incontrano inoltre l’antico problema dell'instabilità harrodiana. Un secondo forse ancora poco noto approccio – che ha le sue radici in Kalecki, Kaldor e anche Garegnani - enfatizza invece il ruolo delle componenti autonome della domanda aggregata come determinanti della crescita. In questa impostazione un mutamento delle quote distributive a favore dei salari reali avrebbe solo un effetto di livello e non sui tassi di crescita. In effetti, a ben guardare, essendo i salari una componente indotta dal reddito, non possono essere il primum movens della crescita. Come le salmerie seguono. Ciò non vuol dire che però una distribuzione del reddito più favorevole ai salari, e una loro crescita in linea con la produttività, non renda il sistema più stabile, rendendo meno necessaria l’espansione di forme di sostegno della domanda basate sull’indebitamente pubblico e, soprattutto, privato. Espansione quest’ultima che molti economisti (fra questi, prima della crisi, Massimo Pivetti) hanno individuato come germe dell’attuale crisi. Inoltre, com’è evidente, effetti positivi di un mutamento delle quote distributive a favore dei salari sui tassi di crescita si avrebbero nel passaggio da un sentiero di crescita a un altro, e non si tratterebbe di guadagni di output trascurabili. Il punto sollevato da Franzini è dunque meritevole di discussione. Egli non chiarisce però a quale teoria si riferisca.
Naturalmente, e chiudo, un mutamento delle quote distributive a favore dei salari potrebbe avere effetti negativi sulla bilancia commerciale. Ma non è questa una ragione per giustificare modelli di deflazione competitiva o di svalutazione interna che attualmente affliggono l’Eurozona. Anzi.

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