venerdì 10 dicembre 2021

Quei sussidi italiani alla Germania

 

Quei sussidi italiani alla Germania

Sergio Cesaratto da Micromega online Dicembre 3, 2021 

 English version here

L’Italia ha pagato certe sciagurate politiche della BCE – influenzate da Berlino, potenza dominante in Europa – con decine di punti di debito/PIL in più e trovandosi ancor più povera, mentre la Germania simmetricamente ci guadagnava.

 ***

Già nella prima edizione delle Sei lezioni di economia denunciavo l’enorme risparmio nella spesa per interessi che il governo tedesco lucrava dalla fuga di capitali dai titoli di stato italiani verso quelli tedeschi, considerati più sicuri.[1] Un istituto tedesco aveva all’epoca quantificato tale risparmio in 100 miliardi di euro. Nell’edizione inglese del 2020 citavo l’autorevole membro tedesco del consiglio esecutivo della BCE, Isabel Schnabel che quantificava nel febbraio 2020 i risparmi di spesa per Berlino in 400 miliardi di euro dal 2017. Questo non solo, naturalmente, in seguito alla fuga dai titoli italiani, che si era progressivamente calmata dal celebre intervento di Draghi del 2012, ma soprattutto per le misure di acquisto di titoli pubblici avviata dalla BCE dal marzo 2015. Questi acquisti erano soprattutto indirizzati a mettere in sicurezza i titoli ad alto debito, come quelli italiani. Ma poiché la BCE deve agire erga omnes, ad avvantaggiarsene furono, ancora una volta, anche i titoli tedeschi. Insomma, vantaggi dalle disgrazie altrui, magari non espressamente cercati, ma comunque evidenti. Disgrazie nei confronti delle quali non si è però innocenti, se è vero che Berlino è stata la principale ispiratrice delle disgraziate politiche fiscali e dell’inazione della BCE sino alla Presidenza Draghi nel 2011, ma nei fatti anche oltre continuando a frenare l’azione della banca centrale.

Un saggio di Athanasios Orphanides, un’ex banchiere centrale cipriota e prestigioso studioso di politica monetaria, docente al Massachusetts Institute of Technology, rafforza queste considerazioni. Sebbene del 2018, il paper avanza osservazioni di grande attualità nel dibattito europeo.[2]

Politica monetaria, politica fiscale e democrazia

Com’è noto, a differenza degli altri grandi paesi industrializzati, la governance economica europea si basa sul solo pilastro della politica monetaria, relegando la politica fiscale a una serie di vincoli che ne mortificano l’impiego per contrastare il ciclo economico. Tale separatezza è però solo apparente: “Quasi ogni azione della banca centrale ha conseguenze fiscali” puntualizza Orphanides (2018, p. 450) citando un altro importante economista e banchiere centrale (e maestro americano di Draghi peraltro), Stanley Fischer. Al riguardo, è già secondo noi molto discutibile che la politica monetaria sia sottratta al controllo democratico dei parlamenti, rendendo “indipendenti” le banche centrali sulla base di teorie economiche opinabili. Orphanides non si mette a contestare di petto tale indipendenza, preferendo metterla in discussione su un altro piano: se la politica monetaria ha conseguenze fiscali, e poiché è unanimemente riconosciuto che le decisioni di bilancio sono di pertinenza dei parlamenti, diventa contestabile che un’istituzione autonoma possa influenzare il bilancio pubblico decidendo ciò che fare o non fare al di fuori di un controllo democratico:

Evidenziare le tremende conseguenze fiscali di decisioni di politica monetaria puramente discrezionali potrebbe sollevare domande sull’opportunità di assegnare tali poteri a funzionari non eletti della banca centrale. In società democratiche, le questioni fiscali sono riconosciute come pertinenza dei governi eletti (ibid, p.450).

L’indipendenza delle banche centrali nel condurre la politica monetaria è stata giustificata nell’impedire che se ne abusasse una volta lasciata nelle mani di governi il cui orizzonte non va oltre la tornata elettorale successiva. Tuttavia, argomenta Orphanides:

Mentre la stabilità dei prezzi dovrebbe essere l’obiettivo primario della banca centrale, rimane fondamentale riconoscere gli immensi poteri fiscali dei bilanci delle banche centrali. Senza compromettere la stabilità dei prezzi, le banche centrali hanno un considerevole margine di manovra nel promuovere risultati economici migliori tenendo in maggior conto le conseguenze fiscali delle loro azioni (ibid, p. 451).

Sfortunatamente il modello economico dominante assegna un ruolo centrale alla banca centrale a cui viene assegnato il ruolo del “re o dittatore benevolo” (ibid, p. 451). In tale ruolo la banca centrale si può arrogare il diritto di giudicare se le azioni dei governi democraticamente eletti sono in linea col suo modello economico, e se non è così di adottare misure punitive tali da rimettere in riga i governi, costringendoli magari a implementare le “riforme strutturali” a lei care (la memoria di noi italiani va forse alla lettera di Draghi e Trichet al governo italiano dell’agosto 2011). Ma, si domanda Orphanides:

In quanto tecnocrati nominati, i banchieri centrali devono essere attenti a non oltrepassare i confini della loro legittimità eccedendo le loro responsabilità e abusando della loro autorità discrezionale. In una democrazia, è improprio per le banche centrali deviare dai loro obiettivi ristretti invocando il “rischio morale”[3] o la necessità di “disciplinare” i governi/Stati che sono stati creati per servire. Questo comportamento degraderebbe la democrazia e incrinerebbe lo scopo delle banche centrali come istituzioni indipendenti (ibid, p. 452).

Ma dunque, di cosa consistono gli effetti fiscali della politica monetaria di cui parla Orphanides?

Gli effetti fiscali della politica monetaria

La politica monetaria ha effetti fiscali attraverso la sua influenza sul tasso di interesse che il governo paga sul debito pubblico. Semplificando un po’: l’andamento del rapporto debito/PIL dipende fortemente dal tasso medio di interesse sul debito e dal tasso di crescita del reddito. Il primo tasso influenza la crescita del numeratore (un’alta spesa per interessi può comportare nuovo debito), il secondo la variazione del denominatore (una crescita relativamente alta fa anche crescere le entrate fiscali). Quindi tassi di interesse minori della crescita del PIL fanno diminuire il rapporto debito/PIL. In questo caso, tuttavia, in luogo di diminuire il rapporto debito/PIL, il governo potrebbe limitarsi a stabilizzare quel rapporto, aumentando la spesa pubblica (in sostanza impiegando la minore spesa per interessi per investimenti e consumi sociali e non per ridurre il debito). Tale politica avrà in generale effetti positivi sulla crescita senza far crescere il rapporto debito/PIL.[4]

Ahimè, questo non va bene, potrebbe però obiettare la banca centrale: invece di diminuire il rapporto debito/PIL ed effettuare le riforme (per esempio operando tagli a certi costi sociali) questo governo va in direzione opposta, meglio dunque non favorirlo. Nelle parole di Orphanides:

Si consideri, ad esempio, una situazione in cui la banca centrale promuove le riforme strutturali che, a suo parere, aumenterebbero la crescita reale di lungo periodo nell’economia e migliorerebbero il benessere. La banca centrale potrebbe sostenere che una politica monetaria più espansiva sarebbe dannosa nel lungo periodo perché impedirebbe le riforme strutturali che il governo dovrebbe perseguire. (…) Per quanto nobili possano essere le intenzioni dei policymaker, tale comportamento della banca centrale è discutibile nelle società democratiche (ibid p. 454).

Il primo esempio che Orphanides fa è quello del Giappone che già prima della crisi finanziaria non agì con la necessaria risolutezza nell’acquisto di titoli per abbassare i tassi di interesse a lungo termine sul debito pubblico, favorendone l’esplosione. Fatto è che la Bank of Japan riteneva una politica più accomodante un disincentivo alle riforme. Un altro argomento, che suscita indignazione, è che una politica di sostegno dei titoli di Stato avrebbe comportato un rischio di perdite nel capitale della Banca, anteponendo dunque ragioni puramente contabili all’interesse del Paese (le banche centrali possono peraltro funzionare benissimo anche con capitale negativo). Purtroppo questo tipo di argomenti lo si ascolta anche oltralpe.

Il caso della BCE

Orphanides considera la BCE “la banca centrale più indipendente e meno tenuta a rendere conto del proprio operato mai creata” (ibid, p. 456). Solo nel 2015 essa ha cominciato un sostegno effettivo ai titoli di stato dell’eurozona – il “whatever it takes” di Draghi nel 2012 era infatti una mera minaccia di intervento subordinato, peraltro, a misure di restrizione fiscale per il Paese “assistito”. Nel caso italiano Orphanides ricorda come il Paese abbia mostrato nel trascorso ventennio avanzi di bilancio primari (al netto della spesa per interessi) per lo più migliori di quelli tedeschi, e notevolmente migliori di quelli giapponesi. Ebbene tanta virtuosità fiscale – che è costata all’Italia una mancata crescita di prodotto e produttività, oltre che tagli alla spesa sociale – è stata premiata dalla BCE con “decisioni che hanno inutilmente peggiorato il differenziale fra tassi di crescita e tassi d’interesse in Italia, mentre hanno migliorato le condizioni corrispondenti in Germania” (ibid, p. 458). Se vi ricordate quanto spiegato sopra, se i tassi di interesse superano i tassi di crescita il Paese si trova in un circolo vizioso di crescita del debito e recessione.

Non che Draghi non fosse consapevole di ciò, ma si è sentito le mani spesso legate dalle regole che i Trattati dettano alla BCE. In un famoso discorso al meeting dei banchieri centrali di Jackson Hole nell’agosto 2014 egli ebbe a dire che il sostegno che la politica fiscale poté fornire alla più rapida ripresa negli Stati Uniti e altrove “riflette il fatto che la banca centrale di quei paesi ha potuto agire e ha agito come un backstop per il finanziamento del governo” (cit. da ibid, p. 464, mio corsivo). Questa fu una bocciatura senza appello della governance economica europea quale iscritta nei trattati. La BCE è in effetti un po’ cambiata in questi anni (e Draghi ha un merito in questo), e sia i suoi economisti (Rostagno et al. 2021, p. 406 e passim) che la revisione della strategia monetaria adottata lo scorso luglio non mancano di richiamare la necessità di una cooperazione fra politica fiscale e politica monetaria.

Sebbene dunque l’accusa di fallimento vada mossa alla governance europea complessiva e non alla BCE, da ultimo la sola parte attiva della politica economica europea, fatto è che, come denunciato all’inizio di questo articolo:

durante la crisi, la BCE decise di non fungere da backstop per il debito pubblico di tutti gli Stati membri dell’area dell’euro con fondamentali solidi. Con le sue decisioni discrezionali, la BCE ha effettivamente creato un sussidio implicito agli Stati membri percepiti come relativamente più forti (come la Germania) e una tassa implicita sugli Stati membri percepiti come relativamente più deboli (come l’Italia) (Orphanides, 2018, p. 465).

Come un Robin Hood à l’inverse la politica monetaria ha consentito, per lunghi periodi perlomeno,

uno spostamento della domanda relativa di debito pubblico denominato in euro dai governi “deboli” ai governi “forti”, inducendo un trasferimento fiscale indiretto nella forma di un premio di rischio per i titoli sovrani “deboli” e un sussidio quale “titoli rifugio” per quelli “forti” (ibid, p. 467).

Conclusioni

Si dice che secondo Alfred Marshall, uno dei fondatori della teoria marginalista prevalente, “Bygones are forever bygone” in economia politica (espressione traducibile in maniera colorita in “Chi ha dato, ha dato, ha dato, ecc.). Alla luce del dibattito in corso sulla revisione della governance economica europea (probabilmente una montagna che partorirà un bel nulla, se va bene, regole peggiorate se va male), e di un rientro della BCE dalle politiche accomodanti dannosissimo per i conti pubblici italiani, far pesare il passato, anche per farlo conoscere alle opinioni pubbliche del Nord Europa, non è forse inutile. L’Italia ha pagato certe sciagurate politiche influenzate dalla potenza dominante con decine di punti di debito/PIL in più e trovandosi ancor più povera, mentre proprio quel Paese simmetricamente ci guadagnava: questo non va proprio politicamente dimenticato.

Riferimenti

Cesaratto S. (2016) Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga e come uscirne, Imprimatur (2da edizione Diarkos 2019).

Cesaratto, S. (2018) Italy: A Question of Interest Rates and Trust (Editorial), Intereconomics, Volume 53 (6), pp. 294-295. https://archive.intereconomics.eu/year/2018/6/italy-a-question-of-interest-rates-and-trust/

Cesaratto S. (2020) Heterodox Challenges in Economics – Theoretical Issues and the Crisis of the Eurozone, Springer.

Orphanides A. (2018) Independent Central Banks and the Interplay between Monetary and Fiscal Policy, International Journal of Central Banking, vol. 14 (3), pp. 447-470.

Rostagno, M., Altavilla C., Carboni G., Lemke W., Motto R., Saint Guilhem A., Yiangou, J. (2021) Monetary Policy in Times of Crisis – A Tale of Two Decades of the European Central Bank, Oxford University Press, Oxford.


[1] Cesaratto (2016), pp. 302-3.

[2] Orphanides (2018).

[3] Nel caso in oggetto per “moral hazard” si intende la “tentazione a peccare” di governi che sentendosi protetti dalla banca centrale espandono la spesa e non effettuano le riforme.

[4] Questa proposta di politica economica, ispirata fra gli altri da Luigi Pasinetti, è stata ripetutamente avanzata da alcuni economisti nella scorsa decade (Cesaratto 2018).

 

Nessun commento:

Posta un commento